Una bella statuina di San Domenico in argento

di Gianni Giancane

Curiosare tra le bancarelle di un mercatino, di una fiera antiquaria o di altra similare circostanza, può riservare spesso delle scoperte interessanti.
È il caso del ritrovamento di questa graziosa ed insolita statuetta in argento raffigurante San Domenico de Guzman [Figura 1], confusa tra numerosi ed eterogenei oggetti in un’esposizione ospitata periodicamente da una delle tante splendide città del nostro suolo italico, e che uno dei numerosi venditori presentava come un vecchio oggetto (… è un santo, … è d’argento perché ho fatto un saggio…).

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Figura 1. Il primo impatto tra i tanti oggetti di una bancarella.

Appena presa tra le mani, ma ancor prima quando l’occhio aveva già abbracciato quello scuro metallo, l’impatto visivo e tattile induceva immediate considerazioni artistiche, ma ancor prima suggestive riflessioni.
Si può essere credenti o meno, ma a volte gli oggetti parlano da soli…, al di là di stereotipati luoghi comuni e diffuse banalità.
Perché San Domenico?
L’opera è composta da due parti strettamente vincolate, il piedistallo e l’effigie del santo.
L’impianto iconografico dell’effigie presenta diversi elementi, qui esaminati in sequenza, che portano verso l’identificazione certa del santo spagnolo [Figure 2, 3, 4 e 5].

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Figura 2. Parti dell’abbigliamento del santo con relativa e specifica nomenclatura.

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Figura 3. San Domenico, dopo rimozione del consistente ossidato, separato dal basamento.

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Figura 4. Parte superiore della statuina. Si coglie la maestria dell’argentiere nella cura e finezza dei dettagli, dando al personaggio, ed al suo volto in particolare, forte realismo e suggestività; si nota inoltre la minuziosità dell’intervento di opacizzazione a “buccia d’arancia” nella cappa ed in altri punti dell’opera.

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Figura 5. La Chiesa ed il Libro, resi “bruniti” creano un deciso ed importante contrasto con le sezioni “a fondo puntinato” delle mani e delle vesti di San Domenico.

Il viso
La tonsura.
Un tempo, essa era uno degli elementi distintivi dello stato di vita clericale e religioso, quale segno di consacrazione a Dio. La tonsura del santo raffigurato nella statuina è quella cosiddetta “a corona”, tipica degli ordini mendicanti medievali (fondamentalmente: domenicani e francescani)
La barba.
La tipica foggia della barba, curata, comune a molti ordini religiosi i cui membri la portavano come il nostro, diversamente da quelli di alcuni ordini monastici (certosini, camaldolesi…), o a partire dal XVI sec., dai cappuccini, o dagli eremiti, nei quali, al contrario, appare incolta, piuttosto fluente, quasi mai tagliata.
Le vesti
Il saio e, soprattutto, lo scapolare (per i domenicani, entrambi rigorosamente bianchi).
Il saio, o tonaca (in senso stretto, sarebbe meglio riservare il primo termine per i francescani, ma, tutto sommato, per l’abito religioso dire saio, tonaca, veste, abito, è indifferente) è la veste ordinaria del frate, quella che utilizza in tutte le situazioni della giornata, compresi preghiera, pasti e lavoro. Proprio per questo motivo, poiché la tonaca era usata anche durante i pasti ed il lavoro, onde evitare che si sporcasse facilmente, molti ordini religiosi finirono col sovrapporre all’abito, una lunga fascia rettangolare di stoffa, con un’apertura circolare per infilarvi la testa, la quale, poggiando sulle spalle, pertanto sulle scapole, donde il nome, ricadeva sul davanti e sul di dietro, a mo’ di grembiule. Col tempo, questa lunga striscia di stoffa, lo scapolare, finì col diventare parte integrante dell’abito.
I francescani, invece, non hanno mai adottato l’uso dello scapolare per il proprio abito religioso.
La mantella, o cappa.
Per i domenicani di colore nero e dalla foggia caratteristica; essa, infatti, non è a tabarro (nota 1), come lo era, ad esempio, per il clero secolare o per i vari rami dell’ordine francescano, ma termina con un cappuccio ed avvolge il petto, aprendosi lungo i fianchi.

Il giglio
Raffigura la virtù della castità, uno dei tre voti religiosi (insieme a povertà ed obbedienza). Il giglio è un elemento tra i più ricorrenti nell’iconografia di San Domenico (così come pure in quella di un santo francescano tra i più noti, Sant’Antonio da Padova). Ai fini dell’interpretazione, è ininfluente la mano (se destra o sinistra) con cui il santo raffigurato lo impugna.
Il libro
Elemento imprescindibile nell’iconografia di S. Domenico: esso rappresenta, senza dubbio, il Libro per antonomasia, la Sacra Scrittura. È sempre presente, perché S. Domenico è il fondatore di un ordine religioso il cui vero nome è Ordo Prædicatorum, ossia Ordine dei Predicatori (ancora oggi, i frati domenicani, pospongono al loro nome la sigla «op», appunto dalle iniziali del nome dell’ordine, come i benedettini «osb» [ordo sancti benedicti], i francescani «ofm» [ordo fratrum minorum], ecc.), il cui scopo (con un linguaggio più appropriato si parla di «carisma») specifico era sì quello della predicazione del Vangelo e della Scrittura, ma anche e soprattutto la ricerca, la difesa e l’insegnamento della Verità, della retta dottrina, della teologia. Non è un caso che alcuni tra i più importanti teologi, del passato (si pensi a S. Tommaso o a S. Alberto Magno), come del presente, siano appartenuti all’ordine domenicano.
È anche per questo motivo che, molto spesso, nell’iconografia di S. Domenico, il Libro è tenuto aperto, ad indicare che il santo (sulla falsariga delle icone bizantine di Gesù Maestro) è colui che “apre” ai fedeli il Libro della Vita, apre la loro mente all’intelligenza delle Scritture, apre il loro cuore ad accogliere la Verità del Vangelo.
Quando, invece, il Libro è chiuso, si vuol sottolineare che il santo raffigurato è in grado di “aprire” quel Libro; in una parola: il Libro aperto porta l’attenzione sull’effetto della predicazione, mentre il Libro chiuso la sposta sull’agente della predicazione stessa. Non è un caso che, nelle icone bizantine, quella che raffigura il Cristo col Libro chiuso (sempre tempestato di gemme) venga detta del Pantokràtor (in greco: Onnipotente).
Pertanto, in questa statuina, si vuol evidenziare il fatto che S. Domenico è uno in grado di aprire il Libro, quindi è una “fonte” sicura, autorevole, attendibile, cui abbeverarsi per saziare la sete di Verità; non si dimentichi l’opera fondamentale di S. Domenico, volta a sradicare l’eresia càtara o albigese, che dir si voglia (nota 2).
La chiesa
Posta sulla mano del santo può avere diversi significati:
In generale, se il Tempio Lateranense (la Chiesa) fosse in pericolo, sarebbe “sorretta” da San Domenico (nota 3).
In senso stretto,
-quel santo è il fondatore di una Chiesa (= Diocesi), oppure di un ordine religioso;
– quel santo è il “titolare” di una determinata chiesa (terminologia specifica: santo titolare di una chiesa, significa che si tratta del santo cui quella chiesa è dedicata); ovviamente, ciò può valere anche per una Confraternita;
– se invece di una chiesa, il santo ha in mano una città ne consegue che di essa egli ne è il patrono (come nell’iconografia di S. Petronio a Bologna);
Non di rado, poi, è una persona non canonizzata ad avere in mano il modellino di una chiesa (da costruirsi, o appena costruita), offerta alla Vergine, ad un Santo, o a Cristo stesso (vedasi uno degli affreschi di Giotto, nella Cappella Scrovegni a Padova, ove Enrico Scrovegni, il banchiere [usuraio, in realtà!!!] che aveva voluto costruire e far affrescare una cappella per la sua famiglia, offre un modellino della “sua” chiesa alla Madonna).
Nel nostro caso, molto probabilmente si tratta del primo significato (il Tempio Lateranense) perché la chiesina è tenuta in mano da S. Domenico con un atteggiamento quasi di protezione, non proprio di offerta.
Da non escludere comunque, ed aprioristicamente, la successiva ipotesi (santo fondatore di una Chiesa, di un ordine…).
Infine, solo se il modellino rappresentasse uno specifico e concreto edificio di culto, magari realmente esistente all’epoca della realizzazione del piccolo simulacro argenteo, allora potremmo rientrare nell’ipotesi attributiva di certezza determinata.
Le scarpe
Per quanto possa sembrare banale, si tratta di un elemento non secondario per l’attribuzione a S. Domenico del santo raffigurato dalla statuina: mentre i francescani e, in seguito, i carmelitani della riforma di S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce (detti “scalzi”) andavano senza calzature, o al limite, indossavano i sandali (di solito senza calze), i domenicani sono sempre stati soliti indossare le scarpe chiuse, appunto perché ciò favoriva l’itineranza nell’attività evangelizzatrice, e/o nei continui spostamenti da un convento all’altro.

Ritengo pertanto che non vi sia dubbio alcuno nel riconoscere San Domenico de Guzman nella statuina d’argento.
Per confronto si vedano ad esempio due altre statue [Figure 6 e 7], tra le tante sparse in chiese, conventi, vari luoghi di culto, in Italia e nel mondo, a ulteriore conferma della nostra attribuzione.

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Figura 6. Statua lignea di San Domenico nella Basilica Santuario Maria SS. della Coltura a Parabita (Le) (fonte Gioventù Domenicana Parabita).

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Figura 7. Statua lignea di San Domenico nella Chiesa di San Giovanni Evangelista-San Domenico con annesso Convento a Ceglie Messapica (Br) (fonte Gioventù Domenicana Parabita). L’iconografia di questa statua, ancor più della precedente, si avvicina moltissimo a quella della nostra piccola opera.

Corre l’obbligo, tuttavia, precisare quanto segue.
Gli elementi diagnostici appena evidenziati non sono gli unici presenti nell’iconografia di San Domenico, che si arricchisce sovente di altri motivi a secondo della contestualizzazione delle opere.
Appare così il cane (di norma bianco e nero) ai suoi piedi con in bocca una fiaccola accesa, una stella sulla fronte (Stella Polare o Stella ad otto cuspidi), il Rosario (legato spesso ad immagini con la Madonna del Rosario) [Figura 8], una Croce fra le mani (lignea e di tipo processionale) ed altri più occasionali legati a determinati episodi della vita del Santo, ognuno comunque con un ben determinato significato e messaggio spirituale.

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Figura 8. Medaglione in argento (inedito, foto dell’autore) Napoli 1832-35, punzone Partenope e n° 8 (non era ancora giunto il 1839 quando sarà introdotto per le opere sacre un nuovo punzone) cm 13 x 9,5 – Argentiere non identificato, iniziali GM), Saggiatore: Paolo De Blasio. Medaglione devozionale (molto probabilmente da Confraternita) in cui San Domenico e Santa Caterina da Siena, ricevono il Rosario dalla Madonna; si noti in basso il cane con la fiaccola (accesa) in bocca.

Considerazioni storiche
Tralasciando dettagliate  note biografiche e storiche del santo (nasce a Caleruega, nella vecchia Castiglia spagnola, nel 1170 e muore a Bologna nel 1221)  facilmente reperibili tra svariate fonti e non oggetto della presente trattazione,  ricordiamo soltanto che il Nostro fu un personaggio “itinerante” e diversi furono i paesi che lo videro impegnato nell’opera di evangelizzazione (i suoi contemporanei lo definivano “Vir evangelicus”), Danimarca, Francia, Italia, più volte a Roma e poi a Bologna. Fondò l’Ordine dei Predicatori, approvato ufficialmente da Papa Onofrio III nel 1216 e fu sicuramente l’ampia diffusione nei territori più disparati che portò il popolo ad amare questa figura, molto vicina alla gente, ai suoi bisogni ed alle necessità primarie, lui che aveva venduto nel 1191, insieme a tutti i suoi beni, le preziose pergamene (estremamente importanti in un periodo in cui non esisteva di certo la stampa) per offrire immediato  sostentamento ai poveri e sfamarli da una terribile carestia.
La presenza nei vari luoghi ne ha fatto nel tempo un santo alquanto venerato ovunque, sempre “presente” attraverso l’opera dei Domenicani, quella delle confraternite, o di associazioni religiose ad egli strettamente collegate (ad esempio il Movimento Giovanile Domenicano) ed in Italia numerose sono le città che lo vedono Protettore o Patrono, da Nord a Sud senza distinzione geografica alcuna.
Fra tutte ritengo opportuno soffermarmi brevemente su Bologna e Napoli.
Nella prima ha sede la Basilica di San Domenico (già Convento di San Nicolò delle Vigne dove il Nostro si era insediato nel 1219), un importante luogo di culto, che ospita nella Cappella di San Domenico, la famosissima Arca, uno straordinario sarcofago lapideo (realizzato da Nicola Pisano nel 1267, con integrazioni nei secoli successivi, dal XV alla metà del XVIII, da parte di numerosi artisti tra cui anche un giovane Michelangelo Buonarroti nel 1494) che contiene le spoglie del santo, compatrono della città felsinea.
Anche di Napoli egli è uno dei santi patroni.
Beh, è proprio un record quello della città partenopea, che da San Tommaso d’Aquino (1625) a Santa Rita da Cascia (1928), passando per San Domenico de Guzman (1641) e, su tutti il supremo San Gennaro (già dal 472), annovera ben cinquantadue patroni!
Ed era d’uopo ad ogni nuovo protettore, far realizzare per la “new entry”, diremmo oggi, una relativa statua d’argento commissionata generalmente al miglior “maestro” dell’epoca, statua o busto che finiva con l’arricchire l’immenso patrimonio del Duomo di Napoli e nello specifico la Cappella del Tesoro di San Gennaro [Figura 9, nota 4].

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Figura 9. Busto argenteo di San Domenico nella Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli (fonte Daria Catello “Il Restauro delle Opere in Argento” – Giannini Editore, Napoli 2007, scheda 11).

Altra curiosità storica è che tra i cinquantadue vi siano ben sette santi di origine spagnola (Domenico di Guzman, Francesco Saverio, Teresa d’Avila, Francesco Borgia, Ignazio di Loyola, Vincenzo Ferrer e Pasquale Baylon) ai quali nel 2010 fu dedicata un’importante Mostra “Sette santi spagnoli patroni di Napoli” presso il Museo del Tesoro di San Gennaro e nella quale i busti argentei dei “magnifici sette” furono esposti dall’otto maggio al dodici ottobre (nota 5).
Ed è proprio in ambito napoletano che venne realizzato il nostro simulacro.

Scheda e descrizione tecnica
Napoli, 1839-1873
Titolo dell’Ag: 833,33/1000
Argentiere: non identificato a causa del punzone appena incusso ed illeggibile
Dimensioni: cm 9,5 (diametro max) x 19 (altezza max)
Peso: 120 gr
Punzoni: Bollo “Croce” con N 8, utilizzato dal 1839 sugli oggetti sacri.

L’effigie del santo è stata realizzata a sbalzo su lastra d’argento, rifinita con bulino e cesello ottenendo dei meravigliosi giochi di luce tra le parti brunite (levigate), quali ad esempio i profili del saio, dello scapolare, della mantella, del libro con la soprastante chiesa, e le parti volutamente opacizzate utilizzando una minuziosa e paziente tecnica di percussione al recto con piccolissimi ceselli, detta a fondo puntinato, risalente al XVII secolo. Con tale sistema si percuoteva l’oggetto da opacizzare con numerosi colpi, tutti strettamente adiacenti, onde ottenere una sorta di pelle a buccia d’arancia (vedi ancora Figure 4 e 5).
Anche il  piedistallo realizzato in lastra battuta a martello e a sbalzo, dall’impianto architettonico a colonna, evidenzia sezioni prevalentemente brunite (levigate e quindi lucide: gradino di base, baccellature larghe nel piede e strette sul fusto, fascia di chiusura a profilo circolare liscio) alternate ad altre a fondo puntinato (esile quanto grazioso raccordo tra base e baccellatura inferiore, volta del plinto colonnare con motivi pseudo fogliacei che elegantemente  si legano alle nuvolette d’appoggio del santo). Non sfugge certamente alla vista un tipico motivo napoletano della prima metà del XIX secolo, detto a “cocciolette” facilmente individuabile nella greca interposta, e che di fatto scandisce, le due differenti tipologie di baccellatura [Figura 10]. Risulta preziosa e “certosina” tutta una serie di piccoli segni di bulino a mo’ di aquiletta individuati nei punti di contatto (superiore) tra i baccelli verticali del fusto colonnare [Figura 11]. Piedistallo ed effigie sono “legate” da una vite passante nel basamento ed ivi vincolata tramite un raccordo troncoconico in legno di noce chiaro (fermato da un dadino in rame) che segue strettamente il contorno interno dello stesso [Figura 12]. Sulla statuina la vite, schiacciata a martello nella parte terminale, forma invece un tutt’uno con il corpo grazie ad una originale saldatura [Figura 13].

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Figura 10. Il piede del basamento con il motivo classico “a cocciolette”, un insieme continuo di fiori e/o frutti più o meno definiti ottenuti quasi sempre a sbalzo. Si intravede anche il punzone, appena battuto, del maestro argentiere, purtroppo non leggibile né interpretabile.

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Figura 11. Curiose incisioni ad aquiletta tra gli incavi dei baccelli colonnari.

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Figura 12. Parte interna del basamento con il sistema di ancoraggio dell’effigie; ben evidenti i due fori, non coevi, per un probabile circuito elettrico (vedi testo).

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Figura 13. Il verso dell’effigie con la vite battuta e saldata nel punto di contatto; interessante la cupoletta del basamento con volute fogliacee puntinate a “buccia d’arancia” definite da solcanti profili e coronata da fascia esterna liscia.

L’opera, giunta ai nostri giorni in perfette condizioni strutturali, presentava tuttavia una fortissima ossidazione.
Non si è ritenuto opportuno lasciare l’opera così come nelle condizioni di ritrovamento, perché patina e sporco d’ostinata ossidazione son due concetti ben differenti.
Una bella e calda patina su un oggetto pulito sarebbe sicuramente auspicabile, soprattutto in opere importanti e di buona epoca.
Sporco facilmente identificabile con una diffusa opacizzazione e drastico cambiamento di colore (viraggio verso le tonalità molto scure) è tutt’altra cosa.
Rimandando ad altro contesto un necessario approfondimento in merito, si è scelta la via della necessaria “pulizia” con opportuni solventi i quali senza aggredire il metallo hanno consentito tuttavia la rimozione dei solfuri (l’imbrunimento e perdita di lucentezza dell’argento è dovuto principalmente al solfuro d’Ag che si forma a seguito di una normale reazione di ossido-riduzione (redox) tra lo zolfo, presente nell’aria sotto forma di acido solfidrico (H2S) ed il metallo). Non è questa la sede per inscenare una dissertazione chimica abbastanza complessa (bisognerebbe affrontare anche altri problemi, ad esempio quello della formazione e successiva rimozione dei carbonati rameici spesso presenti sugli oggetti d’argento, insieme ad ulteriori problematiche piuttosto complesse).
La pulizia ha sicuramente restituito “adeguata e necessaria luce” alla nostra statuina [Figura 14].

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Figura 14. San Domenico dopo l’intervento di pulizia volta alla rimozione dell’ossidazione, ma non lucidato a specchio come capita sovente di vedere in tantissimi argenti antichi, purtroppo …

Punzonatura
Il Bollo di Garanzia per il Regno di Napoli che Ferdinando II istituì per gli oggetti sacri (…per i “vasi sacri” …, nota 6) destinati al culto con R.D. del 4 marzo 1839, è costituito da “un riquadro rettangolare con gli angoli smussati e dal profilo rettilineo”; in tale campitura compare a sx una Croce, al posto della Testa di Partenope, mentre a dx sono presenti la lettera N (Nostrale) e sottostante la cifra 7 (916,66/1000) o 8 (833,33/1000) a seconda della bontà del titolo. Nel riquadro, in vari punti locato, può esserci il segno distintivo del saggiatore (Gennaro Mannara, ad esempio, utilizzava per le opere sacre una x in basso tra la croce e la cifra del titolo).
Tale punzone avrà vita sino al 31 maggio del 1873.
La nostra opera presenta il punzone appena descritto con la Croce corredata dal numero 8, pertanto possiamo stabilire la bontà del metallo corrispondente al secondo titolo [Figura 15].

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Figura 15. Punzone in vigore nel Regno di Napoli a partire dal 1839 “per i soli oggetti legati al culto” in sostituzione di quello ordinario con la testa di Partenope, corredata sempre dal n° 7 o n° 8, che resterà valido per le opere secolari.

Non risulta invece leggibile, perché appena e parzialmente impresso, il punzone del maestro argentiere (vedi ancora Figura 10).
Non vi sono punzoni sull’effigie e questo potrebbe indurre ad affrettate considerazioni.
E’ vero che il R.D. di Ferdinando II del 18 febbraio 1832 stabiliva, tra l’altro, che nelle  opere d’argento composte da diverse parti separabili, ognuna di esse doveva presentare il relativo bollo (nota 7), ma è pur vero che sovente a Napoli, così come in tutti gli altri Stati del futuro suolo italico, non sempre, in tema di regolamenti legati alle oreficerie (punzonature soprattutto) si rispettavano le leggi prescritte, anzi spesso si bypassavano con le più astruse pretese, o si interpretavano “ad usum delphini”.  Talvolta si portava un pezzo all’assaggio ancor non completato, si faceva controllare e punzonare e, una volta rientrati nella propria bottega si completava con le parti mancanti risparmiando così sui diritti da evadere, naturalmente grazie al minor peso…
È vero anche, per “par condicio”, che sovente i saggiatori asportavano per il saggio – classico era quello alla coppella (nota 8) – quantità di metallo, tramite ciappolatura (nota 9), ben superiori al necessario, lucrando in tal modo anche sensibilmente alla fine della giornata di lavoro e se, venivano scoperti, adducevano mortificata giustificazione nella “magra paga” di un saggiatore …
Nella nostra statuina l’effigie, pur non presentando punzone alcuno, viste in primis le caratteristiche tecnico-esecutive, e a seguire la patina – direi meglio i naturali segni d’uso e l’ammorbidimento delle linee, comuni alle due parti -, il sistema di ancoraggio tra di esse, la sezione della vite passante non soggetta ad ossidazione perché alloggiata nel corrispondente spessore del legno, mentre risultavano “sporche” le parti esposte all’aria (visibile preferibilmente “de visu”), appartiene con assoluta certezza al suo piedistallo e ne forma un “unicum”.
Resta da capire soltanto una cosa
Se si osserva attentamente il basamento si notano due piccoli fori, diametralmente opposti (vedi ancora Figura 12) apparentemente privi di significato.
Mi è capitato di imbattermi in piccoli simulacri degli inizi del Novecento, dal secondo quarto in poi (di metallo, ma anche in bakelite, in ceramica, in legno e/o in altri materiali) che spesso ospitavano ai lati, o nelle immediate vicinanze, piccolissime candeline, e talvolta anche elettriche.
L’idea più plausibile che ne traggo è che la nostra possa essere stata interessata negli anni ad una piccola trasformazione, creando due fori, non con un normale trapano o similare attrezzo, ma a percussione dall’esterno (probabilmente usando un chiodo, forse arroventato) così come ben evidenziato dalla Figura 12 che mostra chiaramente i segni del metallo ripiegati all’interno.
La presenza di tracce di ceralacca (impermeabile, adesivo, isolante, visibile nella stessa foto) confermerebbe l’ipotesi, affatto remota, che attraverso quei due forellini possa essere passato in qualche modo un sottile filo elettrico o comunque un circuito, o parte di esso, con finalità “illuminanti” nei confronti di San Domenico e consentirne una più “adeguata venerabilità” nei vari momenti della giornata, e non soltanto in quelli bui…

NOTE

[1] Mantello ampio, avvolgente, senza maniche di origini antiche; nel settore ecclesiastico corredato da una mezza mantellina aperta sul petto, lunga fino ai gomiti, detta pellegrina, con annesso colletto.

[2] I Càtari, o Albigesi dalla città di Albi, (vecchia città romana di Albiga nel sud ovest della Francia) erano un popolo diciamo cattolico (…) ma “gnostico” (erano in realtà dei cristiani dualisti che credevano in due princìpi cardine: il bene, l’Onnipotente Dio” ed il male “Satana”) e pertanto ritenuti eretici dalla Chiesa Cattolica.

[3] I primi biografi di S. Domenico, Costantino da Orvieto (XIII sec.), Umberto De Romans (XIII sec.), Galvano Flamma (XIII-XIV sec.) riferiscono che il Santo, recatosi a Roma nel 1215 per accompagnare il Vescovo di Tolosa, Folco, al IV Concilio Lateranense, incontrò il papa Innocenzo III e gli chiese l’approvazione dell’Ordine religioso che intendeva fondare, i Frati Predicatori, appunto. Il papa, sulle prime tentennò, ma si lasciò convincere da una visione notturna, nella quale vide la Chiesa del Laterano, che minacciava di crollare e che, invece, veniva sorretta dallo stesso Domenico (Raimondo Spiazzi – San Domenico di Guzman – Biografia documentata di un uomo riconosciuto dai suoi contemporanei come “tutto evangelico”, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1999, cap. 22, pag. 169-170). Anche un altro biografo di San Domenico, Alano della Rupe (Alain de La Roche, frate bretone domenicano) riferisce e sostiene tale episodio nel XV secolo.
In realtà, però, molti sostengono che gli agiografi di S. Domenico abbiano attinto a piene mani dalla Legenda maior di S. Bonaventura, il quale riporta un analogo episodio nella vita di S. Francesco, verificatosi sei anni prima, nel 1209, allorché il Santo di Assisi si recò a Roma, dallo stesso papa Innocenzo III (non a caso, il papa di entrambi gli Ordini mendicanti per antonomasia) per chiedere l’approvazione della Regola dei Frati Minori (i francescani).
Anche in questo caso, il pontefice accettò solo dopo aver visto in sogno (durante la notte successiva all’incontro col Poverello d’Assisi ed i suoi primi seguaci) la chiesa del Laterano sul punto di crollare e che veniva sorretta proprio da Francesco (vedasi il famoso affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi).
Sorge pertanto il legittimo dubbio su chi abbia in realtà “copiato”. Sembrerebbe, stando alla successione cronologica, che l’episodio sia da attribuirsi a S. Francesco (1209, mentre quello riferito a S. Domenico è nel 1215), ma occorre precisare che la Legenda Maior di S. Bonaventura (dove si descrive l’episodio riferito a S. Francesco) è del 1263, mentre i riferimenti biografici di Costantino da Orvieto sono del 1246-47, quindi… a quale dei due santi è da attribuire realmente l’episodio?
È una vextata quaestio, sulla quale gli studiosi continuano a dibattere.

[4] Il bellissimo busto di San Domenico, già assegnato in prima analisi da Elio e Corrado Catello ad Alfonso Balsamo (Elio e Corrado Catello “La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Ediz. Banco di Napoli, 1977, tav. LXIII) che lo avrebbe realizzato nel 1658, venne successivamente riassegnato da Teodoro Fittipaldi ad uno dei più grandi scultori del Settecento napoletano Giuseppe Sanmartino. L’attribuzione fu confermata dagli stessi E. e C. Catello dopo “…la fortunata scoperta del più grande complesso scultoreo di mano unitaria del Settecento napoletano, ovvero le otto grandi statue in marmo del Sanmartino del cappellone di San Cataldo nella cattedrale di Taranto…il busto napoletano, infatti, è la fedele traduzione in argento del San Domenico di Taranto, tenuto conto naturalmente della resa plastica propria del metallo…(Elio e Corrado Catello “Scultura in argento Nel Sei e Settecento a Napoli”, Franco Di Mauro Editore, Sorrento 2000, tav. LXXXIV; inoltre Daria Catello – Il Restauro delle Opere in Argento  –  Giannini Editore, Napoli 2007 pag. 221). L’opera, priva di punzonatura, è stata successivamente  restaurata dalla Prof.ssa Daria Catello (figlia di Corrado) ed in fase di restauro la studiosa ha accertato che tecniche esecutive, sistemi d’assemblaggio, precedute dall’analisi stilistica del busto, non potevano essere  compatibili con l’opera del 600 del Balsamo (effettivamente realizzata nel 1658 da Alfonso Balsamo e Carlo Avellino, come risulta dai documenti presso l’archivio di stato di Napoli), che pertanto potrebbe essere stata “sostituita”, forse fusa (?) e ripristinata nel pieno XVIII secolo con la presente (Daria Catello, op. cit.  pag. 221-223).

[5] Ulteriore testimonianza dei legami strettissimi, politici, religiosi, commerciali, culturali e artistici in particolare, tra Napoli e Spagna.

[6] Elio e Corrado Catello – “Argenti Napoletani dal XVI al XIX secolo” – Ed. Banco di Napoli, Napoli 1972, pag. 85.

[7] Ibidem.

[8] Il termine deriva da un crogiuolo dalla forma tronco-conica e di materiale refrattario (detto “cupella” dagli antichi romani), “…nel quale l’argento veniva liberato, mediante fusione, da altri metalli e portato allo stato puro (pari a circa 997/1000)” (Corrado Catello “Argenti Antichi – Tecnologia, Restauro, Conservazione, … – Franco Di Mauro Editore, Sorrento, 2000, pag. 11, 29).

[9] Il prelievo veniva effettuato incidendo il metallo con un particolare bulino dal terminale a V che produceva una linea zigzagante, lunga generalmente 1-2 cm. Normalmente presente sui manufatti antichi, in particolare del XVIII secolo e dei primi anni del successivo, scompare con l’avanzare dell’Ottocento.

Riferimenti bibliografici essenziali
-“Dominique (saint)” di Marie-Humbert Vicaire, in “Dictionnaire de Spiritualité” – Ascétique et Mystique – Doctrine et Histoire – Tomo III, Ed. Beauchesne, Paris 1957, colonne 1519-1532.
-Raimondo Spiazzi – San Domenico di Guzman – Biografia documentata di un uomo riconosciuto dai suoi contemporanei come “tutto evangelico”, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1999.
-Elio e Corrado Catello – Argenti Napoletani dal XVI al XIX secolo – Edizione del Banco di Napoli, Napoli 1972.
-Elio e Corrado Catello “La Cappella del Tesoro di San Gennaro, Ediz. Banco di Napoli, Napoli 1977.
-Elio Catello, Corrado Catello – I Marchi dell’Argenteria Napoletana dal XV al XIX secolo – Franco Di Mauro Editore, Napoli, 1996.
-Elio e Corrado Catello “Scultura in argento Nel Sei e Settecento a Napoli”, Franco Di Mauro Editore, Sorrento 2000.
-Corrado Catello – Argenti Antichi, Tecnologia, Restauro e Conservazione – Franco Di Mauro Editore, Napoli, 2000.
-Daria Catello – Il Restauro delle Opere in Argento – Giannini Editore, Napoli 2007.
V. Donaver – R. Dabbene – Argenti italiani dell’Ottocento – Edizioni Libreria Malavasi, già Edizioni San Gottardo,  Milano 1989 e 2001.
-Ugo Donati  –  I Marchi dell’Argenteria Italiana  –  De Agostini Editore, Novara, 1993 e 1999.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, settembre 2017

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