Angeli lombardi senz’ali

di Vito Zani

Difficile che antiche statue lapidee di Angeli senz’ali possano suscitare interesse più di tanto per l’assenza di questi attributi pur connaturati all’iconografia del soggetto. Trattandosi di parti spesso vulnerabili o non abbastanza saldamente aggregate al corpo, se non addirittura di complementi in altro materiale, come legno o metallo, si è portati a pensare che la lacuna sia il risultato di traumi occorsi nel secolare vissuto dell’opera, in tal caso contrassegnata da fratture, rilavorazioni o innesti sul dorso.
Ma se questi indizi caratteristici non si presentano e le zone interessate della figura appaiono invece lavorate di prima mano, in perfetta continuità con le adiacenze, non si può fare a meno di chiedersi se e perché quella statua di Angelo sia davvero nata senza le ali, prevedibilmente convinti che l’eventuale anomalia non si possa spiegare se non con ragioni di natura iconologica, in una licenza dell’artista piuttosto che in una precisa richiesta del committente.
Gli approfondimenti seguiti all’approccio con alcune statue erratiche lombarde di tardo Quattrocento contrassegnate da simili caratteristiche (quelle del Maestro del San Paolo Eremita e di Giovanni Antonio Amadeo qui illustrate nell’ultima parte testo) hanno portato a un’ipotesi esplicativa affatto diversa, che interpreta in certi casi l’assenza delle ali come del tutto estranea ad istanze semantiche, giustificata soltanto da scelte di mero ordine funzionale o economico.
L’ipotesi si evince da qualche esempio di Angelo alato giunto fino a noi in un’antica collocazione, che, sebbene non originaria o di non comprovabile originarietà, storicizza in tempi remoti la singolare soluzione tecnica delle ali distaccate dalla figura e fissate alle retrostanti superfici di uno sfondo particolarmente ravvicinato o addossato.
Senza avere elaborato un repertorio di casi lombardi in cui tale soluzione è adottata – e ignorando se qualche studio abbia mai affrontato l’argomento su altri contesti -, risultano abbastanza eloquenti in proposito i soli esempi delle due coppie di Angeli che ora verranno esaminate.
La prima, databile alla metà del Quattrocento o poco oltre, cinge coreograficamente i fianchi di un grande stemma sforzesco sopra un monumentale portale seicentesco, ora tamponato, murato su una parete della Corte ducale nel Castello Sforzesco di Milano [Figura 1, nota 1].

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Figura 1. Scultori lombardi, Stemma sforzesco e Angeli reggiscudo su peducci figurati. Milano, Castello Sforzesco, Corte Ducale. 1460 circa (Copyright Comune di Milano. Tutti i diritti riservati).

La realizzazione del portale e l’allestimento dell’insieme risalgono al 1607, come riporta un’iscrizione, mentre resta sconosciuta la provenienza dei pezzi più antichi, vale a dire lo stemma e la coppia di Angeli, probabilmente dismessi da altre parti del Castello.
L’aspetto delle statue ne dimostra la duplice funzione scenografica d’origine. L’una quella di reggiscudo, ossia di illustrare i due grandi scudi ancora sorretti dalle superstiti mani ribassate, sui quali doveva essere rappresentato uno stemma, ora cancellato, che susciterebbe qualche dubbio circa l’originarietà del loro abbinamento con lo stemma nel grande riquadro al centro (nota 2).
L’altra funzione, perduta insieme alle mani che gli Angeli innalzavano verso il centro del proscenio, poteva forse consistere nel tenere aperta una tenda o sostenere un festone o un cartiglio o qualche altro elemento.
Alla finalità della messa in mostra degli scudi pare grosso modo conforme l’attuale orientamento delle due figure, specularmente rivolte all’osservatore secondo uno scorcio all’incirca di tre quarti, mentre restano al momento insolubili gli interrogativi non solo sulla struttura del complesso d’origine, ma anche sulla pristina destinazione ‘a parete’ delle due statue.
Interrogativi suscitati in parte dal buon livello di finitura scultorea che esse presentano nelle zone retrostanti visibili dagli spiragli contro la parete, ma derivano anche e soprattutto dalla stranezza della conformazione e della sistemazione delle ali, che, connesse ai corpi da un breve tratto di malta – verosimilmente apposto su un giunto metallico, comunque insufficiente a reggerle – sono in realtà assicurate alla parete da perni in ferro di cui si scorge qualche porzione emergente.
Tale separazione dai corpi appare ben dissimulata nella visione frontale dell’apparato, da cui si riceve a colpo d’occhio anche l’errata impressione che ciascun Angelo rechi un’unica ala dispiegata lateralmente [Figure 1A e 1 B].
Solo osservando le figure in scorcio [Figure 1C e 1 D] ci si accerta della presenza concreta e non solo accennata dell’altra ala, nascosta in un’innaturale e del tutto inverosimile torsione, distesa sul retro dell’ala visibile frontalmente, modellata insieme a questa sulla medesima lastra marmorea.
La pertinenza stilistica di ali così conformate a figure di cui si ravvisa almeno in parte una finitura retrostante impedisce dunque di escludere che queste ultime fossero nate come statue a tutto tondo, con le ali giunte dietro ai dorsi in perpendicolare e non di lato. Nel caso, sarebbe stato indispensabile un sostegno alternativo per i blocchi delle ali, vista l’insufficienza allo scopo delle sole figure, quanto l’assurdità di una free standing statue con un simile sbilanciamento su un unico lato.

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Figura 1A.

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Figura 1B.

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Figura 1C.

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Figura 1D.

Figure 1A-B-C-D. Bottega di Cristoforo Mantegazza (attr.), Angeli reggiscudo, particolari di Figura 1.

Di contro, la forma dei piedistalli delle statue combacia perfettamente con quella delle coeve mensole su cui poggiano, tanto da farle pensare realizzate apposta per ospitarle già in origine in una posizione sopraelevata su una parete.
Qualche elemento in più si potrebbe ricavare dall’esame ravvicinato dei dorsi delle statue e dei blocchi delle ali, onde verificare l’eventualità di fratture combacianti e dei resti di dismesse soluzioni di sostegno sui lati delle ali addossati alla parete, il che sarebbe possibile solo in seguito alla loro rimozione.
Gli indizi contrastanti suscitati dall’esame necessariamente limitato a cui è attualmente possibile sottoporre queste opere non permettono quindi di capire come fosse strutturato in origine il gruppo dei due Angeli reggiscudo, ma lasciano anche aperta l’ipotesi di possibili modifiche tra il progetto e la prima messa in opera.
Pertanto, potrebbe anche darsi che la soluzione adottata in questo allestimento di primissimo Seicento – con questa particolare articolazione tra i corpi, le ali e lo sfondo – ne riproponga in realtà una precedente di circa un secolo e mezzo.
Rimane il fatto che il carattere monumentale e la particolare accuratezza esecutiva di queste semplici figure di complemento scenografico lascerebbero congetturare le loro origini entro un complesso più articolato e artisticamente più impegnativo di quello odierno.
Congedandosi da questa prima coppia di Angeli, si rimandano in nota i confronti e gli argomenti alla base della proposta attributiva qui avanzata alla bottega di Cristoforo Mantegazza (nota 3).
La seconda coppia di statue da esaminare è rappresentata dai due Angeli, uno con cornucopia e l’altro con cartiglio, collocati ai lati del portale maggiore della Certosa di Pavia [Figura 2 e 3, nota 4].

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Figura 2. Scultore lombardo, Angelo con cornucopia. Certosa di Pavia, facciata, 1475 circa.

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Figura 3. Scultore lombardo, Angelo con cartiglio. Certosa di Pavia, facciata, 1490-1495 circa.

A differenza dei due milanesi appena esaminati, questi esemplari pavesi sono rivolti frontalmente all’osservatore e tengono le ali simmetricamente levate su entrambi i lati. Separate dai corpi, queste sono fissate a retrostanti sorte di nicchie in marmo rosso dalla concavità piuttosto contenuta e dalla forma alquanto anomala, ricavate quasi certamente da dismessi elementi di diversa destinazione.
La stessa sporgenza dalla parete di questi supporti di fondo risulta diversa nei due rispettivi alloggiamenti, ma un senso di difformità ancor più marcato si avverte nelle statue, entrambe databili nell’ultimo quarto del Quattrocento e tuttavia apparentemente distanti l’una dall’altra di almeno un quindicennio.
Rabberciata anche con materiali di riciclo, questa sistemazione rende indubbiamente problematico il tentativo di determinarne una cronologia, fermo restando però che la sua presenza costituisce tutt’altro che un’eccezione in un prospetto già di per sé più o meno generalmente rabberciato quale è appunto la facciata della Certosa, la cui decorazione, avviata nel 1473-1474, visse perennemente tra sospensioni, riprese, ripensamenti, cambi di programma, smantellamenti e reimpieghi (nota 5).

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Particolare di Figura 2.

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Particolare di Figura 3.

Come suggerisce Fabrizio Tonelli (comunicazione personale), poiché i due Angeli chiudono scenograficamente i lati del portale maggiore, la loro posa in opera dovrebbe risalire intorno ai lavori condotti dal 1508 per la sistemazione delle adiacenze e il compimento del gigantesco portale a colonne binate, commissionato a Benedetto Briosco nel 1501, quasi certamente più ampio rispetto a quello previsto nel progetto con cui era partito il cantiere della facciata nel 1473.
Può essere dunque che la coppia di Angeli fosse prevista già in questo primo progetto, in una zona però sottoposta a modiche dal nuovo portale (da qui l’impiego di marmo di risulta per lo sfondo delle due statue, verosimilmente scelto più che altro per il colore rosso-bruno, a dare adeguato risalto alle figure in bianco di Carrara). Agli anni della prima campagna decorativa, 1473-1479, risalirebbe infatti l’Angelo con cornucopia, mentre il piglio più classicheggiante dell’Angelo col cartiglio farebbe propendere per una cronologia a cavallo tra gli ultimi anni del Quattrocento e i primissimi del Cinquecento.
In questo caso non possiamo stabilire se le statue fossero nate senza ali, oppure se l’alloggiamento ‘di fortuna’ ne avesse imposto la decurtazione e il seguente fissaggio al fondo. Pur nell’impossibilità di esaminare adeguatamente il retro delle figure, resta la prova di un allestimento che, con tutta verosimiglianza, dovrebbe risalire al primo Cinquecento.
Alla luce degli esempi fin qui esaminati di statue tuttora poste in opera, si può finalmente passare ad osservare alcuni esemplari erratici di Angeli senz’ali.
A partire da questa inedita statua di Angelo cantore, plausibilmente attribuibile al Maestro del San Paolo eremita e databile all’incirca verso gli anni 1480-1485 [Figura 4, nota 6]. La figura, probabile elemento di un ciclo o di una coppia, reca il dorso sommariamente sbozzato secondo una trama uniforme, con solo l’eccezione di qualche lieve danno superficiale. Sono però soprattutto il profilo piuttosto sottile del corpo, simile a quello dei due esempi visti in Certosa, e ancor più la modellazione quasi astrattamente convessa del dorso – impossibile non pensare all’invaso di una nicchia – a tenere aperta l’ipotesi che anche questa statua portasse le ali non aggregate al corpo, bensì fissate alla superficie cui doveva essere giustapposta.

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Figura 4 Maestro del San Paolo eremita, Angelo cantore. Collezione privata. 1480-1485 circa.

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Retro di Figura 4.

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Fianco di Figura 4.

Caso alquanto più complesso e intrigante è quello delle quattro statuette di Angeli con simboli della Passione conservate al Castello Sforzesco di Milano e ritenute parte della smembrata arca dei Martiri Persiani, già nella chiesa di S. Lorenzo a Cremona, realizzata da Giovanni Antonio Amadeo e collaboratori tra il 1480 e il 1482 (nota 7).
Due di questi Angeli risultano completamente privi delle ali, mentre dei due che ne sono provvisti, soltanto uno le tiene dispiegate e ben visibili anche frontalmente. L’altro le ha appena leggermente accennate in una strana posizione divergente, entrambe nascoste: una richiusa dietro la schiena e l’altra distesa sul retro del flagello sorretto dalla mano sollevata [Figure 5, 6, 7, 8].

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Figure 5, 6, 7 e 8. Giovanni Antonio Amadeo, Angeli con simboli della Passione (e rispettivo retro). Milano, Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. 1480-1482 (Copyright Comune di Milano. Tutti i diritti riservati).

L’inaudita soluzione adottata per le ali di quest’esemplare non appare meno curiosa della presenza di due esemplari atteri, in una commistione di stranezze che sembra tuttavia presentarsi come originaria e che le stesse condizioni conservative delle quattro statuette inducono ad escludere quale possibile risultato di rimaneggiamenti ex post (nota 8).

Non è dato sapere come fossero collocate queste figure all’interno del monumento – di cui rimane nota soltanto la struttura a grandi linee -, né se il ciclo si limitasse a questi quattro esemplari. La loro rifinitura a tutto tondo lascerebbe supporre una destinazione tale da permetterne un’ampia visuale, a ridosso di un supporto di fondo più probabilmente piano che a nicchia, oppure di una colonnina o un pilastrino.

La soluzione delle ali separate dal corpo risulta qui più interessante per le dimensioni contenute dei manufatti, che di per sé non comportano i problemi di peso, ingombro, lavorazione, movimentazione e posizionamento della figura, posti agli esemplari più grandi dalle ali dispiegate. Così è pure per il rischio del loro distacco dai corpi e per la stabilità stessa delle figure, facilmente ancorabili al suolo tramite perni metallici e malta.
Alla base della scelta, nelle statuette cremonesi, resterebbe dunque come unica istanza comune con le statue più grandi quella del risparmio del materiale, in questo caso il pregiato marmo carrarese. L’esigenza di economizzare, connaturata in primis ai mestieri che trattano materiali costosi, nella scultura lapidea si traduce principalmente nell’uso ragionato delle pezzature dei blocchi marmorei. Se modellate sullo stesso blocco della figura, le ali dispiegate comportano l’inevitabile sacrificio di una notevole percentuale eccedente di materiale, la cui quantità varia con le dimensioni della statua.
Che per le statuette cremonesi siano state utilizzare pezzature di marmo non tutte abbastanza ampie da consentire un’adeguata modellazione delle ali si desume non solo dai due esemplari atteri, ma soprattutto da quello con le minuscole ali divergenti, evidentemente ricavate sfruttando al massimo una minima eccedenza di marmo disponibile sullo stesso blocco della figura.
Tornando ai termini generali della questione, si può notare come pure in assenza di esempi accertabili dall’originaria collocazione (ma la ricerca è ancora lunga), rimanga piuttosto forte il quadro indiziario circa un uso di scolpire statue di angeli già in origine senza le ali, queste ultime previste nello stesso marmo, da fissare però al fondo scenografico anziché alla figura.
Avendo appurato che rimandano agli anni Ottanta del Quattrocento gli indizi più eloquenti, rappresentati dai due ultimi casi esaminati, vale la pena di concludere con l’episodio altamente sospetto dei dieci Angeli musicanti e cantori di S. Maria dei Miracoli a Brescia, superstiti dei dodici pagati al Tamagnino nel 1489 [Figura 9, nota 9].

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Figura 9. Antonio Della Porta detto Tamagnino, Angelo musicante. Brescia, S. Maria dei Miracoli. 1489.

Tutti privi delle ali, versano in condizioni conservative complessivamente buone, come se i ripetuti spostamenti cui furono sottoposti nel corso dei secoli avesse cagionato loro come unico danno una perdita tutt’altro che traumatica delle ali. La loro collocazione entro le elevatissime nicchie interne del tiburio, cui erano destinati già in origine, ne impedisce l’osservazione dei dorsi, per quanto appaia ben evidente come la profondità delle figure si adegui con precisione a quella piuttosto ristretta delle nicchie. È dunque auspicabile che, nell’occasione di eventuali restauri, si possano raccogliere elementi utili a chiarire anche sotto questo profilo quale fosse lo stato originario delle statue e del loro allestimento.

NOTE

[1] M.T. Fiorio, scheda in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea tomo III, Milano 2014, pp. 316-318, n. 1253; la recente attenzione sul gruppo scultoreo si deve a Laura Basso, Uno stemma e due angeli. Un’opera erratica del Castello Sforzesco, in Il più dolce lavorare che sia. Mélanges en l’honneur de Mauro Natale, a cura di F. Elsig, N. Etienne, G. Extermann, Milano 2009, pp. 195-199.

[2] Non sarebbe facile addebitare a un intervento di epoca napoleonica la cancellazione dei soli stemmi laterali e non di quello ben più imponente al centro. Più verosimile apparirebbe un adattamento apportato in occasione dell’allestimento, per incompatibilità degli stemmi ai lati con quello al centro.

[3] Si può notare la forte somiglianza tra questa coppia di Angeli monumentali e quella di soggetto analogo in versione ridotta sull’ancona di S. Maria Assunta a Campomorto, nei dintorni di Pavia. La documentazione su quest’ancona si limita all’atto del 16 novembre 1491, in cui tale Francesco Mantegazza ne ufficializzava la donazione alla chiesa, riferendo nel testo che il lavoro scultoreo era opera di Antonio Mantegazza (J. Shell, Amadeo, the Mantegazza brothers and the facade of the certosa di Pavia, in Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura del suo tempo, atti del convegno (Milano, Bergamo, Pavia, 1992) a cura di J. Shell e L. Castelfranchi, Milano 1993, pp. 189-222). L’apparato non manca di parti discrete, ma, al di là del discorso qualitativo, presenta elementi così disparati in termini stilistici e cronologici da rendere evidente il reimpiego da parte di Antonio Mantegazza di qualche giacenza della storica impresa di famiglia, resa grande dal fratello maggiore Cristoforo e conservatasi tale almeno fino alla morte di costui, nel 1479. Proprio allo stile di Cristoforo, rimasto intriso di goticismi fino all’ultimo respiro, si richiamano in modo palese le due statuette di Campomorto, il cui rapporto con quelle milanesi va interpretato a mio avviso non come dipendenza della coppia minore dalla versione monumentale, bensì come risultato di varianti combinatorie di modelli di bottega. Sui Mantegazza scultori, la particolare predilezione in cui furono tenuti dalla corte milanese, nonché per la testimonianza della loro attività prestata per il Castello Sforzesco, allora detto di Porta Giovia, tra il 1462 e il 1475 – cioè nel periodo a cui risalgono i due Angeli rimessi in opera nel 1607 -,  vedi la voce biografica [Leggi].

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A sinistra: Bottega di Cristoforo Mantegazza (attr.), Angeli reggiscudo. Milano, Castello Sforzesco, Corte Ducale. 1460 circa (particolare di Figura 1); a destra: Bottega di Cristoforo Mantegazza (attr.), Angeli reggiscudo. Campomorto (Pv), S. Maria Assunta. 1460-1470 circa.

[4] Le due figure, specie quella del più debole e tardo Angelo col cartiglio, sono state raramente toccate dalla bibliografia, a partire dal giudizio disincantato di Carlo Magenta (La Certosa di Pavia, Milano 1897, pp. 185, 190): “opera di mediocre scalpello”, mentre l’Angelo con cornucopia, da lui attribuito ai Mantegazza, “non potrebbe essere più bello, malgrado il vitreo e la durezza delle pieghe. E’ una figura trattata con molta naturalezza, quasi sicura di sè”. Al seguente silenzio sulla prima statua è corrisposta una conferma dell’attribuzione sulla seconda da parte di Arslan e Bossaglia (R. Bossaglia, La scultura, in M.G. Albertini Ottolenghi, R. Bossaglia, F.R. Pesenti, La Certosa di Pavia, Milano 1968, pp. 56, 76 nota 48).

[5] Soluzioni smaccatamente disomogenee e raffazzonate sono presenti persino nelle ben più importanti figurazioni dello stesso registro su cui compaiono i due Angeli, vale a dire il ciclo dei grandi riquadri neotestamentari, uno dei quali, raffigurante la Resurrezione di Lazzaro, è strutturalmente diverso da tutti gli altri per il fatto di avere la parte superiore occupata da un cospicuo blocco decorativo. Essenziali sulla facciata del cantiere pavese restano C. Morscheck, Relief sculpture for the facade of the Certosa di Pavia 1473-1499, New York-London 1978; M.G. Albertini Ottolenghi, La fsccists della chiesa: contributo per una rilettura, in La Certosa di Pavia e il suo museo. Ultimi restauri e nuovi studi, atti del convegno (Pavia, Certosa, 22-23 giugno 2005) a cura di B. Bentivoglio-Ravasio, con L. Lodi e M. Mapelli, Milano 2008, pp. 55-81, con bibliografia precedente.

[6] La statua (marmo, cm. 58 x 20 x 12, collezione privata), mancante di una parte degli arti inferiori, doveva essere più alta di almeno una ventina di centimetri. Una prima ricostruzione di questo artista ancora anonimo, particolarmente attivo come statuario al duomo di Milano intorno al 1465-1470, si deve a Mia Cinotti (Il Maestro del San Paolo Eremita, in Il Duomo di Milano, atti del congresso internazionale (Milano, 8-12 settembre 1968), a cura di M.L. Gatti Perer, vol. II, Milano 1969, pp. 111-128), la quale raggruppò sotto questo nome convenzionale, da lei coniato, una serie di opere comprensiva di un primo nucleo in cerca d’autore già composto a inizio Novecento da Ugo Nebbia (La scultura del Duomo di Milano, Milano 1908, pp. 121-123). Per una ricapitolazione della vicenda critica dell’artista, sviluppatasi ulteriormente fino ai giorni nostri, si rimanda a V. Zani (schede in Milano. Museo e Tesoro del Duomo. Catalogo generale, a cura di G. Benati, Milano 2017, pp. 238-241, nn. 166-168, con bibl. prec.), oltre a una relazione tenuta alla Fondazione Federico Zeri nel settembre 2017 da Laura Cavazzini (Milano, Duomo, 1470 circa: il “Maestro del San Paolo eremita”; in rete all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=9j62nZC0b3s), che ha proposto nuove integrazioni al catalogo del maestro, oltre all’ipotesi della sua possibile identificazione in Lazzaro Palazzi.

[7] Sulle quattro statuette, alte intorno ai 40 cm., vedi V. Zani, schede in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea, Tomo secondo, a cura di M.T. Fiorio, Milano 2013, pp. 16-21 nn. 475-478, con bibliografia precedente. Nello schedare queste opere, un eccesso di scrupolo ha indotto lo scrivente a qualificarne soltanto due come Angeli e le altre come Giovani, pur nell’evidenza che anche queste ultime sono Angeli, di soggetto pienamente conforme al ciclo di cui fanno parte Sull’arca dei Martiri persiani vedi, da ultimo e con bibliografia precedente, M.G. Albertini Ottolenghi, Un documento inedito su Giovanni Antonio Amadeo e qualche nuova considerazione sull’arca dei Martiri Persiani, in La lezione gentile. Scritti di storia dell’arte per Maria Segagni Malacart, a cura di L.C. Schiavi, S. Caldano, F. Gemelli, Milano 2017, pp. 571-577.

[8] A fronte di qualche lacuna e alcune fratture nella parte inferiore, dovute presumibilmente a un’incauta rimozione dal complesso cui erano aggregate in origine, le quattro figure recano la superficie scultorea in ottimo stato di conservazione anche sul dorso, interamente panneggiato e ben rifinito, dove si scorge soltanto un foro all’altezza del bacino, tamponato con stucco in due esemplari (in un caso è stata innestata sul dorso una barretta metallica verticale per stabilizzare la figura lungo le fratture ricomposte di cui sopra). Nell’unico esemplare con le ali dispiegate, queste ultime risultano danneggiate nelle terminazioni e fratturate al centro.

[9] Su queste statue vedi V. Zani, Gasparo Cairano e la scultura monumentale del Rinascimento a Brescia (1489-1517 ca.), Roccafranca 2010, pp. 97-102.

Per i consigli, i pareri e le tante cortesie, l’autore ringrazia Alessandro Barbieri, Laura Basso, Giulia Benati, Beatrice Bentivoglio, Lorenzo Bruschi, Matteo Facchi, Francesca Tasso, Fabrizio Tonelli e Susanna Zanuso.

Prima pubblicazione: Antiqua.mi, novembre 2018

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