Le radici degli studi moderni in Italia sulla scultura lombarda del tardo Quattrocento e un “libro di adesso” su Tommaso Rodari. Prima parte*

di Vito Zani

Dato alle stampe nel 2020, il libro di Mirko Moizi su Tommaso Rodari e il Rinascimento comasco è la prima monografia di ampio respiro su questo maestro, nonché la seconda fino ad oggi dedicata a uno scultore lombardo operoso nel ducato di Milano in tardo Quattrocento (nota 1).
Considerando che a precederlo, nell’ormai remotissimo 1904, era stato il classico Gio. Antonio Amadeo di Francesco Malaguzzi Valeri (nota 2), va da sé che questa nuova uscita difficilmente potrebbe passare inosservata, non meno di quell’interposto vuoto di oltre un secolo, la cui eccezionalità rende anch’esso meritevole di particolare attenzione.
Non pare difficile potervi riconoscere un chiaro sintomo delle difficoltà da sempre incontrate dagli studi lombardi nella ricostruzione delle autografie degli scultori attivi in questi anni di grandi svolte, contrassegnati da radicali rivolgimenti stilistici e da un’abbondanza produttiva senza precedenti, seguita alla crescente richiesta di marmi lavorati, che, iniziata tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, giungeva da vari settori della committenza (nota 3).
Nel giro di poco tempo, la Certosa di Pavia divenne il principale nucleo generativo delle innovazioni che connotarono le sembianze uniche di questo scenario scultoreo, animato in tale cantiere (dal 1473-1474 al 1479 circa) dalla concorrenza tra due imprese: quella dei fratelli Cristoforo e Antonio Mantegazza e quella della società guidata dai due Giovanni Antonio, Amadeo e Piatti, entrambi venticinquenni (nota 4). Alla ricostruzione di tutti costoro, autentici protagonisti della storia di quegli anni, nulla o pochissimo di utile ci è stato trasmesso da antiche fonti letterarie, né sono servite più di tanto le rarissime sculture firmate a mantenere viva nel tempo una concreta memoria dei loro autori.
Si può dire che la loro riscoperta sia partita dal rinvenimento in archivio dei loro nomi ad opera di eruditi sette e ottocenteschi, per poi procedere in parallelo con la solida tradizione di ricerca documentaria che ne è seguita. E che è culminata nella formidabile raccolta di documenti su Amadeo, pubblicata nel 1989 da Schofield, Shell e Sironi, con ben millecinquecentocinquanta numeri (cui se ne sono aggiunti ulteriori anche ad opera di altri studiosi, compreso quello, importantissimo, del suo contratto di apprendistato), che hanno reso alle conoscenze storiche uno degli artisti più documentati del Rinascimento (nota 5).
Egli è l’unico, tra gli scultori poco fa menzionati, a poter vantare una simile copertura documentaria, oltre a una monografia e un convegno a lui intitolati (nota 6). Eppure, come per tutti gli altri colleghi, la ricostruzione del suo catalogo è da sempre oggetto di forti dispareri, anche in merito a opere particolarmente significative, tanto che la sua personale autografia è dibattuta perfino in marmi recanti la sua firma o documentati a suo nome.
Ferme restando le perdite di antiche fonti archivistiche, tra cui pesano in primis quelle dei registri contabili di importanti cantieri (su tutti proprio la Certosa), non possiamo certo dire che nel nostro caso la ricerca documentaria sia mancata, né, purtroppo, che i suoi risultati siano sempre decisivi per determinare la reale paternità artistica delle opere.
È mancato semmai qualcos’altro, a partire da quel segno profondo che i più eminenti filologi e conoscitori di scultura rinascimentale lasciarono altrove già dal tardo Ottocento, intorno agli artisti su cui si erano focalizzate le loro indagini. Di conseguenza, sono mancati quegli esempi capaci non tanto di mettere d’accordo gli studiosi – i contrasti sono connaturati all’attività critica -, quanto di fissare autorevolmente i termini di un dibattito e una soglia di valori metodologici.
Ma sarà stata soltanto questa lacuna ad aver reso in qualche modo più debole, rispetto ad altre, la tradizione critica di un così rilevante comparto della storia dell’arte italiana? Certamente no, e lo si comprende bene già dagli esordi propriamente italiani di tale tradizione, per l’appunto dal Gio. Antonio Amadeo di Malaguzzi.

Il Gio. Antonio Amadeo di Malaguzzi Valeri in rapporto al contesto scientifico e il ruolo pionieristico dell’Oberitalienische Frührenaissance di Alfred Gotthold Meyer (1900)
Malaguzzi Valeri non era uno specialista di scultura, come in fondo nemmeno la gran parte di coloro che allora se ne occupavano; per prima cosa era un ricercatore d’archivio, e dalla ricerca d’archivio dipendeva in massima parte la sua amplissima e disparata produzione di testi (nota 7).
Tuttavia, nelle pagine introduttive del libro, l’autore riferiva soddisfatto dell’intensa pratica di analisi stilistica condotta “attraverso il labirinto della identificazione delle opere sue [di Amadeo] fra quelle dei contemporanei e di numerosi seguaci: labirinto in cui finora nessuno s’era studiato di entrare coraggiosamente, per uscirne con la palma della vittoria” (nota 8).
Il libro portava qualche importante novità documentaria e un ricco apparato illustrativo, con le immagini di diverse sculture inedite conosciute dall’autore sul territorio e in collezioni private, anche a seguito delle sue qualificate frequentazioni e dei suoi incarichi istituzionali nella tutela del patrimonio artistico in Lombardia [Figura 1].

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Figura 1. Copertina e frontespizio del libro di F. Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo, scultore e architetto lombardo (1447-1522), Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1904.

L’elegante prodotto editoriale si collocava in una pubblicistica sviluppatasi in Europa da pochi decenni (ma sarebbe più giusto parlare di anni, nel caso di libri con tante riproduzioni fotografiche), sull’onda della moderna riscoperta della scultura del Rinascimento italiano. Essa era maturata nel solco aperto da Burckhardt, principalmente grazie a studiosi di lingua e cultura germanica, facenti capo ai diversi indirizzi teorici della fervida civiltà critica di quel mondo, allora di gran lunga all’avanguardia a livello internazionale. Lì era emersa la gigantesca figura di conoscitore di Wilhelm Bode che, come gli altri, si interessò per lo più ai maestri toscani e in particolare a Donatello (e di conseguenza anche alla sua cerchia padovana), al quale erano state dedicate non poche monografie già nel secondo Ottocento (nota 9).
Quella di Malaguzzi, tuttavia, non era la prima proposta lombarda di un certo peso comparsa all’orizzonte: nell’anno 1900 era stato stampato a Berlino il secondo volume di Oberitalienische Frührenaissance di Alfred Gotthold Meyer, un libro di circa trecento pagine (dalla veste decisamente più austera, con meno illustrazioni, compresi disegni e incisioni, rispetto al volume di Malaguzzi), sulla scultura e l’architettura del secondo Quattrocento in Lombardia, concepito come prosieguo del primo, del 1897, incentrato sugli stessi temi ma nell’epoca di passaggio dal Gotico al Rinascimento (nota 10).
A questo capolavoro della critica spetta l’organico riordino dell’enorme ed eterogenea mole di materiali di studio cumulata fin lì dalle ricerche, la ricognizione di documenti, testi locali e fonti antiche – in qualche caso mai sondate prima dagli studi lombardi (nota 11) -, la sistematizzazione dei temi, la definizione dei centri artistici locali, dei loro rispettivi ruoli e protagonisti nel corso del tempo. Un’impresa immane e senza precedenti, impensabile al di fuori della tradizione di rigore metodologico e classificatorio da cui si era originata, oltre che impossibile senza il presupposto degli studi già prodotti dallo stesso autore (nota 12).
Il libro di Meyer fu accolto in Italia da recensioni favorevoli ma non di non grandissimo peso: quattro in totale quelle qui rintracciate, tutte del 1901 [Figura 2] (nota 13).

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Figura 2. Copertina e frontespizio del libro di A.G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei. Zweiter Theil. Die Blüthezeit, Berlin, Wilhelm Ernst und Sohn, 1900.

L’opera era ovviamente attesa anche perché anticipata dal volume precedente e più di quello creò una certa aspettativa al di qua delle alpi, come dimostra un’anteprima in italiano di parte del capitolo su Bramante, che vide la luce nel 1900 su “Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana” (nota 14). Tra le recensioni, l’unica pubblicata su una rivista specialistica di storia dell’arte fu quella di Gino Fogolari su “L’Arte”, che, sebbene non particolarmente approfondita e incentrata per lo più sull’architettura, metteva bene in chiaro il carattere inedito del lavoro di Meyer. Infatti, nonostante il proliferare di pubblicazioni monografiche su singoli monumenti, “nessuno aveva ancora tentato uno studio generale comparativo che ci mostrasse il carattere speciale dell’arte architettonica lombarda” (nota 15).
Questo aspetto propriamente critico di organicità e sistematicità – nell’esame delle opere, delle fonti e degli studi precedenti -, era in effetti ciò che più impressionava anche i cultori non specialisti, quali il pavese Mariano Mariani, giurista e conoscitore di numismatica antica, e il milanese Gaetano Crugnola, ingegnere e appassionato (tra le altre cose) di storia dell’arte e dell’architettura. Entrambi, senza dichiararlo esplicitamente, recensirono il libro di Meyer come un tipico esempio della nuova Kunstwissenschaft (scienza dell’arte) applicata all’architettura e alla scultura del Rinascimento in Lombardia (nota 16).
Anche Malaguzzi, su “Archivio Storico Lombardo”, recensì a caldo il libro di Meyer spendendo apprezzamenti verso quell’opera che “pel suo carattere prevalentemente critico è indispensabile a chi studia l’arte lombarda”, ed è quindi “della maggiore importanza per la storia dell’arte lombarda”; “Le figure dei maestri lombardi escono da quest’esame più nitide e precise e la loro attività vien studiata con criterii d’artista severo ma giusto […]. In tal modo l’opera sua di fervente cultore degli studi d’arte lombarda è di una utilità senza pari” (nota 17).
Nella recensione, Malaguzzi accennava anche al volume precedente di Oberitalienische Frührenaissance, ma è il secondo “sul quale preferisco intrattenermi anche perché tocca di alcuni argomenti intorno ai quali mi sto occupando sulla guida di nuovi dati”. “E poiché l’opera del Meyer non è di quelle che si possano recensire diligentemente in tutte le parti […], preferisco intrattenermi intorno agli argomenti sui quali forse nuove ricerche storiche posson contribuire a gettare nuova luce, limitandomi per le altre a raccomandarne la lettura attenta”.
Anche Malaguzzi aveva ben recepito la solidità dell’impianto critico del testo di Meyer, che gli offriva un irrinunciabile quadro interpretativo entro cui valutare i suoi ritrovamenti documentari. Era un supporto fondamentale per lui che appena qualche anno prima, come vedremo, si era dichiarato e dimostrato mal disposto a ricostruzioni basate su altro dai documenti d’archivio, guadagnandosi un rimprovero neanche tanto velato da parte di Adolfo Venturi, che lo richiamava all’urgenza metodologica della valutazione critica delle opere d’arte e del ruolo storico dei loro autori.
In ogni caso, in questa recensione del 1901, Malaguzzi non aveva ancora manifestato il proposito di scrivere un libro su Amadeo. Lo farà appena l’anno dopo, in un articolo su “Rassegna d’Arte” dedicato ad alcune sculture lombarde del Quattrocento, che iniziava così: “Dal materiale che ho raccolto per una monografia destinata a illustrare la vita e le opere dell’Amadeo e de’ suoi scolari più notevoli tolgo poche note relative ad alcune sculture che si conservano nel Museo Archeologico al Castello Sforzesco” (nota 18).
Nel Gio. Antono Amadeo, egli adoperò la dovuta accortezza per non dare a vedere il suo enorme debito nei confronti di Meyer, citandolo solo di sfuggita qua e là, soprattutto nei punti di disaccordo, mai per questioni di ordine generale, ma nemmeno per aspetti particolari di evidente importanza.
È bene precisare che proprio Meyer aveva operato una riconsiderazione complessiva dell’intera attività scultorea di Amadeo con una cognizione critica senza precedenti, ben superiore a quella dei pochi tentativi anteriori (nota 19). La sua esposizione, tuttavia, non fu di tipo monografico, bensì per trattazioni episodiche entro il più generale discorso sullo svolgimento storico-stilistico del contesto. Naturale che, per Malaguzzi, la struttura stessa della monografia sul singolo artista bastasse già da sé a occultare buona parte del maltolto, cioè a non far capire quanto dell’Oberitalienische Frührenaissance fosse stato decostruito e poi ricomposto a pezzi in un diverso ordine. Eppure, proprio il carattere pletorico del Gio. Antonio Amadeo, che va ben oltre le esigenze della monografia su un singolo artista, lascia comprendere meglio di ogni altra cosa lo sforzo di Malaguzzi nello spremere il più possibile il lavoro di Meyer.
Malaguzzi adottò diffusamente un simile silenziamento anche nei confronti di altri studiosi, cosa che contribuisce ulteriormente a spiegare lo scompenso tra la mole del testo e l’esiguità dell’apparato delle note, sempre prodighe di segnalazioni dei propri ritrovamenti documentari, quanto povere dei crediti dovuti a colleghi per recenti attribuzioni ad Amadeo o per acquisizioni intorno alle sue opere.
Così, ad esempio, il gruppo con l’Incoronazione di Maria al Carmine di Pavia, attribuito ad Amadeo pochi anni prima da Carlo Magenta, veniva riproposto come tale da Malaguzzi, senza accenni bibliografici o di merito (nota 20). Idem per la cronologia dell’arca di S. Lanfranco nell’omonima chiesa pavese, ritenuta da Calvi e dagli studi immediatamente seguenti un’opera giovanile di Amadeo, la cui datazione tarda, appurata in sede locale dal 1875 sulla base di un’indagine storica, era riportata da Malaguzzi come dato acquisito, senza rimandi a studi altrui (nota 21). Tale correzione cronologica, fra l’altro, aveva indotto Meyer a operare una tripartizione nel percorso stilistico di Amadeo, laddove gli studi precedenti si erano limitati a recepire la svolta ‘cartacea’ ed ‘espressionistica’ rappresentata dall’arca dei Martiri Persiani di Cremona, travisando il proto-classicismo di alcune parti dell’arca di San Lanfranco come segni dello stile precedente alla svolta suddetta. Superfluo dire che anche in questo caso Malaguzzi non mancò di accreditare a sé il merito della novità, semplicemente evitando di riferire che era già stata introdotta da altri.
Al Gio. Antonio Amadeo, bastò così l’aggiunta di qualche opera e di qualche documento inedito per rendere quell’impressione di novità affermata con tanto vigore nell’introduzione: “le pubblicazioni sulla scultura lombarda sono molte e qualcuna eccellente; ma, fra tante, nessuna ha precisamente per oggetto lo studio dell’attività del grande maestro, diretta a precisarne, con criteri moderni, la figura artistica”. E infatti, “a lavoro finito, m’accorsi che avrei potuto intitolare il libro: la scultura lombarda nel periodo aureo del Rinascimento. Preferii attenermi a un titolo più modesto o, almeno, più preciso”. Con una certa dose di falsa modestia, veniva così introdotto il primo libro su quell’artista che al pubblico internazionale era stato presentato per la prima volta nel 1868 come “the most remarkable of Lombard sculptors” e che nemmeno gli studi italiani, a quanto pare, avevano ancora dichiarato come tale (nota 22).
Nell’introduzione, Malaguzzi riservava infine una menzione di riguardo agli “studiosi dell’arte lombarda” (tutti italiani, ringraziati uno per uno) per “l’aiuto” che “è stato largo e intelligente e ha valso non di raro a richiamare la mia attenzione su opere poco note di collezioni pubbliche dell’estero o di case private, su fonti scritte che forse mi sarebber sfuggite, su interpretazioni dubbie di varie sculture” (nota 23).
Appena uscito, il libro di Malaguzzi suscitò la reazione scandalizzata di un grande studioso tedesco del Rinascimento italiano, Hans Semper (autore nel 1875 di un’oculatissima monografia su Donatello, la migliore fin lì pubblicata).  Il suo disappunto venne manifestato nel 1905, in una recensione dai toni garbati ma dai contenuti inequivocabili, che iniziava proprio dal debito insoluto nei confronti di Meyer, rammentandone la recente e prematura scomparsa (nota 24). Quanto ai riconoscimenti preliminari riservati da Malaguzzi ai soli studi italiani, veniva fatto presente che, senza gli altri, mai egli avrebbe potuto compiacersi d’essere entrato nel “labirinto” delle attribuzioni, convinto di esserne uscito con la “palma della vittoria”. A tale proposito, Semper disapprovava l’idea stessa di una monografia su Amadeo, considerata inadeguata a un materiale di studio che, in quanto a opere, non permetteva per sua natura di costruire realmente il catalogo di alcun artista, essendo “assolutamente impossibile separare con nettezza le opere dei singoli artisti noti per nome tra le innumerevoli sculture ancora esistenti, la maggior parte delle quali può essere opera di ignoti che hanno seguito lo stile in auge. Anche nelle opere che portano la firma di Amadeo o che gli appartengono per via documentaria si trovano differenze così grandi da far rizzare i capelli, dettagli deliziosi accanto a difetti e carenze di gusto, tanto che non si è quasi mai sicuri di avere a che fare con lui o con i suoi compagni”. Semper lamentava infine come le immagini del ricco apparto illustrativo fossero intercalate nel testo senza connessione con i relativi brani, a loro volta privi di rimandi alle figure: un limite editoriale imputabile nella migliore delle ipotesi a un lavoro affrettato.
In definitiva, sul piano più eminentemente critico, Semper confermò le conclusioni a cui era pervenuto Meyer, ossia che riguardo ad Amadeo non vi fosse la possibilità di procedere più di tanto oltre la distinzione delle tre fasi stilistiche e il riconoscimento dei capi d’opera che le contrassegnano.
Meyer non era un conoscitore sul genere di Bode, nel senso che intendeva e conduceva l’indagine attributiva non strettamente finalizzata alla ricostruzione di cataloghi di singoli artisti, onde evitare di ridurre l’esercizio della filologia a una “arida critica stilistica”, come ebbe lui stesso ad affermare (nota 25). Lo studio dei singoli artisti doveva per lui rispondere all’istanza superiore di delineare e comprendere il mondo di forme estetiche e di valori culturali di cui ciascuno di essi si faceva interprete in rapporto alla storia del proprio tempo.
Questo ambizioso modello epistemologico, a cui Malaguzzi e altri studiosi italiani aspiravano di riflesso (nota 26), era invece per Meyer parte integrante della formazione assimilata dagli insegnamenti di un grande maestro come Anton Springer, docente all’università di Lipsia. Il confronto tra i casi di questi due studiosi rispecchia in qualche modo quello tra i loro rispettivi mondi di appartenenza in termini di civiltà critica.

Adolfo Venturi, la nascita della storia dell’arte in Italia e la soggezione verso l’esempio germanico
È un confronto che impone di aprire una parentesi piuttosto ampia, entro la quale sarà possibile ancor meglio comprendere, sotto tanti punti vista, la genesi del Gio. Antonio Amadeo e la personalità del suo autore.
Per farlo, è opportuno partire dal celebre articolo programmatico di Adolfo Venturi Per la Storia dell’Arte, uscito nel 1887, quando in Italia ancora non esisteva una cattedra universitaria di storia dell’arte (la prima venne istituita nel 1896 ed assegnata a lui, che già nel 1890 aveva ottenuto  la libera docenza nella materia), né una rivista di settore dal carattere specialistico e non divulgativo (l’articolo venne non a caso pubblicato su “Rivista Storica Italiana”, dopo essere stato rifiutato da “Nuova Antologia”) (nota 27).
L’allora trentunenne Venturi – appena reduce dalla carica di funzionario presso la Galleria Estense di Modena e ormai prossimo a divenire il patriarca della moderna storia dell’arte in Italia – lamentava nel lungo e denso articolo il drammatico stato di arretratezza della propria patria, unita politicamente da appena venticinque anni, rispetto ad altre realtà europee riguardo ai modelli di studio della storia dell’arte, alla sua presenza nelle istituzioni e nel quadro culturale della nazione. Il paradosso era che proprio allora l’Italia, quale dimora dell’arte e della civiltà del Rinascimento, era divenuta come non mai oggetto di interesse da parte di molti tra i più importanti studiosi stranieri, docenti nelle principali università del continente europeo.
Erano in gran parte gli stessi, come i citati Semper e Springer, impegnati in un enorme sforzo teorico volto a riformare la storia dell’arte su basi scientifiche, entro il vivace dibattito sviluppatosi soprattutto nel mondo germanico sui compiti della disciplina e sulle metodologie di ricerca storica e formale da applicare al proprio oggetto d’indagine, ossia le immagini e i manufatti artistici di quel passato. Un passato inteso non più come motivo ispiratore di nostalgie e sentimentalismi romantici, bensì come fonte d’interesse in quanto fondamento storico e culturale della modernità (nota 28).
Nel guardare al di là delle Alpi, Venturi non esitava a dichiarare che “quasi nulla l’Italia ha prodotto che abbia l’elevatezza, lo spirito fine, la minuta ricerca della nuova scuola critica tedesca”, evidenziando così in modo esplicito quale fosse per lui l’avanguardia da prendere ad esempio. Essa risiedeva “in Germania, alle Università”, dove “il Ianitschek a Strasburgo, lo Springer a Berlino, il Justi a Bonn, ecc., preparano la legione dei dottori che si riversa per l’Europa, e corre l’Italia bramosa di vedere, di studiare, di portare il suo tributo alla scienza”. In questa “legione dei dottori” tedeschi era compreso – o lo sarebbe stato a breve – il nostro Meyer, allievo di Springer, ricordato erroneamente da Venturi all’università di Berlino (nota 29).
Confrontandosi con quel mondo, Venturi vedeva in Italia soltanto “due diverse schiere di cultori d’arte […]: i ricercatori di documenti, e gli studiosi delle opere d’arte”. Questi ultimi, altrimenti detti conoscitori, erano in patria più rari e meno favoriti, tanto che i migliori, come Cavalcaselle e Morelli, pubblicavano all’estero o addirittura espatriavano. Quanto invece ai “ricercatori di documenti”, Venturi si soffermava non poco a spiegare le ragioni della ridotta stima che generalmente nutriva nei loro confronti, con l’unica eccezione di Gaetano Milanesi, citato con grande benemerenza (nota 30). Considerando la ricerca d’archivio una pratica indispensabile ma non sufficiente allo studio delle opere d’arte – né, di per sé, a comprendere il reale contenuto dei documenti stessi -, Venturi mal sopportava la tendenza diffusa tra gli appartenenti a questa categoria a sconfinare entro territori sottoposti ad altre competenze, così come a considerarsi storici a tutti gli effetti.
L’irriducibile distinzione tra le due categorie, la relativa disistima nei confronti dei “ricercatori di documenti” e la relativa predilezione per i conoscitori – “studiosi delle opere d’arte” – rimasero punti fermi nella mentalità di Venturi, per tutta la sua vita. È indispensabile precisarlo perché proprio entro questi termini si giocava la chiara opinione che Venturi aveva di Malaguzzi, e che, molto probabilmente, fu uno dei presupposti fondamentali della rottura dei loro rapporti.
Nonostante il primo fosse figlio di un artigiano decoratore e il secondo un rampollo di famiglia nobile, col titolo di conte, e nonostante la differenza d’età tra i due fosse di appena undici anni, Venturi ebbe notoriamente un ruolo imprescindibile nelle esperienze formative di Malaguzzi come storico dell’arte (nota 31). Il loro rapporto personale era iniziato nel 1888, quando l’allora ventunenne “Cecchino”, come veniva chiamato in famiglia, ebbe il privilegio di essere accolto a Roma sotto l’ala di Venturi, forse addirittura ospite nella sua casa. Quest’ultimo, ottenuta la nomina ministeriale di ispettore presso la direzione generale dei Musei e delle Gallerie, si era appena trasferito a Roma, lasciando la Galleria Estense di Modena. Malaguzzi, che doveva terminare gli studi di giurisprudenza iniziati a Modena, decise invece di farlo a Roma proprio sperando di potersi avvicinare a Venturi e al suo mondo, come risulta dalle lettere inoltrate a questi dallo stesso Malaguzzi e dai suoi genitori, che chiedevano anche ospitalità per il figlio (nota 32).
Nel 1888, fra l’altro, erano cominciate le pubblicazioni di “Archivio Storico dell’Arte”, la prima rivista specialistica italiana in materia, fondata da Domenico Gnoli e in pratica da Venturi (nota 33). Se non dal di dentro, sicuramente Malaguzzi ebbe modo di vedere da vicino quel cantiere di lavoro, dove si realizzava un prodotto di livello internazionale, capace di misurarsi con le autorevoli e già molto consolidate realtà europee del settore, quindi anche di attrarre prestigiose firme di studiosi stranieri, con i quali, del resto, Venturi era perennemente in contatto.
Per un giovane con le aspirazioni di Malaguzzi, l’esclusiva esperienza romana era di gran lunga il massimo a cui si potesse ambire allora in Italia. Conclusi gli studi di giurisprudenza, tornò nella natìa Reggio Emilia nel 1890 (anno in cui all’università di Roma fu assegnata, per la prima volta in Italia, la libera docenza in storia dell’arte, ottenuta da Venturi), dove si dedicò a una frenetica ricerca negli archivi locali, che gli fruttarono rinvenimenti disparati per argomento ed importanza. Rimase in contatto con Venturi, dando conto delle sue principali scoperte documentarie su “Archivio Storico dell’Arte” e, qualche anno dopo, anche su periodici stranieri (nota 34).
Acquisite diverse novità documentarie sullo scultore reggiano del Cinquecento Prospero Spani detto il Clemente, gli dedicò nel 1893 un articolo su una rivista locale, ove premetteva che vi avrebbe trattato “la sola parte teorica dell’argomento, col completare la biografia e l’elenco documentario dei lavori dell’artista, lasciando che altri ne studi l’evoluzione dello stile e faccia un esame critico delle opere sue” (nota 35).
L’articolo venne commentato da una breve recensione di Venturi, che si complimentava per la “copiosissima serie di documenti” e per le “diligenti ricerche intorno al tempo della esecuzione delle opere del maestro”. Ma poi concludeva che “resta ora a trovare la misura dell’ingegno di lui rispetto ai contemporanei e a determinarne il carattere. Incoraggiamo il Malaguzzi, che ha già piantato salde le fondamenta del lavoro, ad architettarlo intero. Intanto noi gli ricordiamo un bassorilievo segnato PROSPER CLEMENTIVS REGIEN (ch’egli potrà aggiungere all’elenco delle opere dell’artista), già illustrato […] nello scritto: Di alcuni pregevoli bassi rilievi in marmo esistenti nella R. Galleria Palatina (Modena, 1867); e lo confortiamo a trasformare quell’elenco in un catalogo descrittivo e ragionato delle opere dell’artista” (nota 36).
Dietro l’eloquio signorile era in realtà sferzante il giudizio sulle qualità critiche di quel testo, apprezzabile per le acquisizioni documentarie, ma scadente nella valutazione propriamente artistica dello scultore e nella cognizione delle opere; al punto che Malaguzzi ne ometteva addirittura una firmata presso un importante museo vicino a casa sua, già segnalata a stampa un quarto di secolo prima. Ma soprattutto – Venturi non lo dice appositamente – era stata perfino riprodotta e discussa nel 1882 nel primo storico catalogo a stampa della galleria modenese, dovuto a Venturi medesimo, che ne andava ogoglioso: un lavoro talmente autorevole e innovativo che sola menzione di un’opera conservata in tale museo è come se ne portasse con sé l’implicito rimando bibliografico [Figura 3] (nota 37).

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Figura 3. Dettaglio della p. 104 del volume di A. Venturi, La Regia Galleria Estense in Modena, Modena, Toschi & C., 1882.

Benché il tono della recensione abbia portato ad interpretarla come una sostanziale approvazione dell’articolo (nota 38), gli aspetti qui evidenziati inducono invece ad attribuirle un senso diverso, alla stregua del primo segno documentabile della reale considerazione che Venturi aveva di Malaguzzi, e che, con ogni probabilità, doveva essere già maturata ai tempi della loro frequentazione romana.
Intanto, nel 1892, Malaguzzi aveva ottenuto un posto come “alunno” all’archivio di stato di Bologna, diretto da Carlo Malagola, diplomandosi come archivista due anni dopo (nota 39). Anche lì conseguì numerose scoperte documentarie, su cui elaborò diverse pubblicazioni. In questo periodo bolognese, protrattosi fino al 1899, degno di nota è il lavoro condotto sui fondi inesplorati dei codici miniati, affidatogli appositamente da Malagola, oltre alle ricerche sull’architettura del Rinascimento in città.
Nel gennaio del 1899 venne assunto all’archivio di Stato di Milano, allora diretto dal cugino e cognato Ippolito Malaguzzi Valeri, già direttore di quelli di Reggio Emilia e di Modena, rispettivamente fino al 1887 e al 1898. In quegli anni addietro, con ogni probabilità, era stato proprio Ippolito a trasmettere al giovane “Cecchino” la passione per la ricerca d’archivio e a fornirgli i primi contatti con Venturi, conosciuto personalmente per le comuni frequentazioni nell’ambiente modenese (nota 40).
Una volta a Milano, Francesco Malaguzzi Valeri “rimase in quell’archivio quattro anni durante i quali ebbe certo la opportunità di poter raccogliere gran parte di quell’immenso materiale di studio, che servì poi a documentare le posteriori sue opere sull’arte e gli artisti lombardi […]. Quei quattro anni di pratica hanno servito sì a romperlo ad ogni più ardua ricerca, ma non gli hanno permesso il quotidiano contatto delle opere d’arte nel quale comprende che si deve raffinare il suo spirito di ricerca e di valutazione” (nota 41).

Il Gio. Antonio Amadeo tra le ambizioni e i problemi di carriera del suo autore
E infatti non dev’essere stato un caso che in questi primi anni milanesi, pur concentrando le proprie ricerche documentarie sempre sul Rinascimento, Malaguzzi avesse prediletto più del solito le ‘arti maggiori’ come pittura e scultura.
È questo solo uno dei diversi indizi che portano a pensare come il suo approdo milanese fosse stato appositamente programmato in vista di migliori prospettive d’impiego: dall’archivio al museo, dai documenti alle opere d’arte, per l’appunto. Malaguzzi doveva essersi persuaso, a ragione, che da Venturi non avrebbe potuto ottenere altro che la pubblicazione di qualche articolo su “Archivio Storico dell’Arte”, divenuto “L’Arte” dal 1898.
A Milano, invece, poteva contare su un appoggio ben più influente di quello del parente Ippolito, ossia quello del direttore della Pinacoteca di Brera, Corrado Ricci, che aveva di lui molta stima e con cui era in rapporti confidenziali da tempo, e che, fra l’altro, era entrato da qualche anno in profonda inimicizia con l’ex amico Venturi (nota 42).
Ricci, in procinto di trasferirsi a Firenze per un nuovo incarico, chiese ed ottenne nel maggio 1903 di far ingaggiare Malaguzzi a Brera come “comandato” dall’Archivio di Stato (nota 43). Fece di tutto per favorirlo come suo successore, affidandogli il riordino della pinacoteca e il relativo catalogo, che, pubblicato nel 1908, è stato giudicato la migliore opera di Malaguzzi, l’occasione che gli diede modo di fare pratica diretta sulle opere d’arte, segnando “anche la sua definitiva conversione da archivista ad uomo di museo” (nota 44). Il carattere antologico delle raccolte di Brera rese di certo ampiamente formativa per Malaguzzi questa esperienza, che, ricordiamolo, riguardava esclusivamente la pittura. Ricci si adoperò anche in altri modi per consolidare il curriculum di Malaguzzi: lo volle con sé nell’organizzazione della Mostra dell’antica arte senese (1904) e molto probabilmente fu lui ad introdurlo nel giro della rivista “Rassegna d’Arte”, fondata e diretta da Guido Cagnola nel 1901, che vide Malaguzzi prima collaboratore, poi membro del comitato direttivo (1903), e infine condirettore (1905) (nota 45).
Si spiega così pure l’iperattività pubblicistica intrapresa da Malaguzzi dal 1901 e condotta per alcuni anni con una densità davvero mai vista, anche di volumi dal notevole impegno – come Pittori Lombardi del Quattrocento (1902) o lo stesso Gio Antonio Amadeo (1904) -, difficili da concepire ed elaborare in tempi così ristretti (nota 46).
Non a caso, al di là dei suoi meriti, anche Pittori Lombardi è oggi valutato con significative riserve per alcune approssimazioni su temi importanti, evidentemente dovute alla necessità di mandare in stampa più in fretta possibile pubblicazioni spendibili come importanti titoli da curriculum (nota 47).
Tutto ciò avveniva peraltro in concomitanza con la sua attività di Ispettore per le Belle Arti, che richiedeva tempo e concentrazione per i sopralluoghi sul territorio, le relazioni e altri lavori d’ufficio, attività in cui Malaguzzi fu regolarizzato in pianta stabile nel luglio 1907, a seguito della legge introdotta in quell’anno sul personale delle Antichità e Belle Arti.
In gioco c’era dunque la direzione della Regia Pinacoteca di Brera, lasciata da Ricci già nel 1903 e provvisoriamente assegnata allora a Giorgio Sinigaglia, che la mantenne fino al 1908. Un’apposita commissione ministeriale (di cui facevano parte Corrado Ricci e Adolfo Venturi) aveva infatti deliberato nel 1907 di mettere a concorso questa ed altre direzioni di gallerie nazionali, stabilendo regole e requisiti per il reclutamento. Il concorso si tenne l’anno dopo: ne sono ben noti l’esito e la catena di strascichi polemici, oltre allo smacco tremendo che segnò profondamente Malaguzzi per il ventennio che gli sarebbe rimasto da vivere. Vinse l’outsider romano Ettore Modigliani, allievo fidato di Adolfo Venturi, come gli altri che lo stesso Venturi, membro della commissione giudicatrice, fece in modo di collocare in quasi tutte le direzioni messe a bando per le gallerie nazionali (nota 48).
Due membri della commissione – Baudi di Vesme e Pogliaghi – si rifiutarono di firmare la relazione finale del concorso, adducendo che il vincitore designato su Milano era privo di pubblicazioni inerenti l’arte lombarda; lo stesso Malaguzzi inoltrò ricorso, ma non vi fu nulla fare.

“Polemiche artistiche”
La fine dell’impellenza di dover pubblicare in vista del concorso di Brera, nonché il suo traumatico esito, determinarono nel 1909 un brusco diradamento dell’attività pubblicistica di Malaguzzi. Di contro, lo iniziarono al filone delle “polemiche artistiche”, com’era intitolata la rubrica di “Rassegna d’Arte” dove egli scaricò a dirotto la rabbia e il rancore accumulati nei confronti di Venturi. Già il numero di febbraio del 1909 ospitava un suo articolo non breve, incentrato su come Venturi aveva trattato la scultura lombarda nel volume della Storia dell’Arte sulla scultura del Quattrocento, uscito solo l’anno prima. Lì, Venturi aveva ripetutamente ‘punzecchiato’ Malaguzzi, anche a proposito del Gio. Antonio Amadeo (nota 49).
L’articolo di Malaguzzi riusciva palesemente irrispettoso fin dal titolo (nominando la monumentale opera venturiana “la storia del Venturi”, con tanto di “s” minuscola), mentre in calce non compariva alcuna firma, bensì la sigla non decifrabile “V.A.”, che – per coincidenza o meno – dava all’inverso le iniziali di Venturi (nota 50). Di certo giunse inattesa la reazione così tempestiva e feroce di quest’ultimo, con la lunga risposta che “Rassegna d’Arte” si vide costretta a pubblicare appena quattro mesi dopo l’attacco di Malaguzzi (nota 51). Anche perché Venturi, pur senza farne esplicitamente parola, alludeva chiaramente alla reale identità del “Signor V.A.” (oltretutto condirettore della rivista), che a sua volta si vide costretto ad uscire allo scoperto, stavolta firmandosi col vero nome. Anche nel titolo si apportava una modifica, non più “la storia del Venturi”, bensì “la «Storia dell’Arte» di Adolfo Venturi”.
Così, sulla stessa pagina di “Rassegna d’Arte” in cui si chiudeva la piccata replica di Venturi, a metà colonna, cominciava la smisurata controreplica di Malaguzzi Valeri (nota 52), che spiegava anche come dietro le iniziali “V.A.” ci fosse lo pseudonimo di Valerio Acuto, “di cui mi son servito talvolta nel giornalismo letterario, ma ho seguito un uso che ha fatto comodo allo stesso Venturi per anni e anni, quando si trattava di sferzare chi non la pensava come lui”.
Non è qui il caso di passare in rassegna i vari punti della disputa, banalizzati in funzione delle vicendevoli accuse di non saper leggere le opere né interpretare i documenti: una vera e propria deriva personalistica, che assumeva la scultura lombarda del Quattrocento come puro pretesto per dare libero sfogo a reciproci rancori, passati e recenti.
Piuttosto, l’unico punto su cui vale ora la pena di soffermarsi è un passo in cui Venturi menziona “il povero A.G. Meyer”, detto “povero” non tanto perché prematuramente scomparso nel 1904, quanto perché fautore di una tesi ritenuta aberrante da Venturi e condivisa da Malaguzzi, nonché allora da diversi altri studiosi e oggi unanimemente accolta (nota 53). Essa riguardava il monumento funebre di Giovanni e Vitaliano Borromeo all’Isola Bella, che Venturi reputava interamente di Giovanni Antonio Piatti, rifiutando l’idea che la metà inferiore e altre parti fossero state realizzate decenni prima da altre maestranze [Figura 4].

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Figura 4. Dettaglio della p. 907 del volume di A. Venturi, Storia dell’Arte Italiana. La scultura del Quattrocento, Milano, Hoepli, 1908.

Tuttavia, non è affatto certo che tale “idea cervellotica del povero A.G. Meyer” risalga realmente a questi: si propende anzi ad attribuirne la prima paternità a Giulio Carotti, fermo restando che venne espressa quasi in contemporanea dai due (con un lieve anticipo di Carotti), i quali ebbero forse modo di consultarsi prima (nota 54).
Con ogni probabilità, furono i buoni rapporti con Carotti a trattenere Venturi (nota 55) dal trascinarlo nella polemica. Non a caso, anche nella Storia dell’Arte Italiana la questione era stata affrontata negli stessi termini, rimandando al testo di Carotti come contributo generale sul monumento Borromeo, per poi dire che “non si può assolutamente distinguerlo in parti come volle il Meyer”, citato in nota insieme a Malaguzzi (nota 56). Ricordiamo, di passaggio, che questa “idea cervellotica” sul monumento Borromeo è in realtà il primo atto della lenta e laboriosa ricostruzione – culminata proprio ai nostri giorni con la monografia di Anne Markam Schulz – dell’attività di Filippo Solari e Andrea da Carona e del fondamentale ruolo connettivo da essi svolto nei vari territori del nord Italia in cui operarono (nota 57).
Pur condividendo altri aspetti fondamentali di quel rudimentale abbozzo di ricostruzione, fu proprio sul monumento Borromeo che Venturi concentrò uno dei nuclei principali dello scontro, prospettando nel merito un’interpretazione non meno peregrina di quella di Malaguzzi, secondo cui nulla in quel complesso poteva spettare a Piatti. La rottura tra i due rimase da allora insanabile e, come vedremo, è forse possibile riconoscerne un prosieguo sotto mentite spoglie nelle stroncature operate dal giovane Roberto Longhi dei primi tre volumi della lussuosa pubblicazione La corte di Lodovico il Moro, a cui Malaguzzi aveva affidato certo una buona parte della sua fama internazionale.
È invece il caso di rileggere il breve necrologio scritto per lui nel 1929 da Venturi sulle pagine de “L’Arte”: un piccolo capolavoro di scrittura per l’impalpabile ambiguità con cui traduce in toni consoni alla circostanza un puro distillato di disprezzo per l’odiato defunto, sia come studioso (buon ricercatore di documenti, ma critico inetto di opere e di artisti), sia come uomo (morto suicida per il pubblico scandalo di aver sottratto centinaia di dipinti al museo che dirigeva) (nota 58).

I tempi della rivalsa nazionalistica
Come si è visto, per puro opportunismo, il “povero A.G. Meyer” finì con l’essere trasformato in una specie di capro espiatorio, in spregio a meriti che avrebbero reso più che appropriato per lui quanto meno l’appellativo di ‘compianto’.
Ed esattamente così, nello stesso 1909, veniva invece ricordato da Malaguzzi, ma era una beffa ancor peggiore. In quell’anno, oltre a polemizzare con Venturi, Malaguzzi aveva infatti pubblicato su “Repertorium für Kunstwissenschaft” un articolo in italiano su San Colombano al Lambro in cui approfittava per dire che “m’è grato ricordare il compianto amico dott. Alfred Gotthold Meyer, così acuto investigatore dei caratteri dell’edilizia lombarda antica […]. Io ho pensato che, dopo le mie peregrinazioni nella regione stessa, il frutto di ricerche e di qualche scoperta potrebbe interessare in Germania – dove gli ammiratori dell’arte italiana sono una legione e dove i visitatori del bel paese son numerosi e dotti” (nota 59).
Puramente cerimoniale era la definizione di “amico” usata da Malaguzzi per ricordare Meyer, al di là della mancanza di testimonianze di rapporti personali tra i due, si è infatti potuto notare come lo studioso tedesco non venisse neppure nominato tra i crediti e i ringraziamenti nell’introduzione del Gio. Antonio Amadeo. Ma, soprattutto, è ovvio che omaggiare Meyer unicamente come studioso di architettura equivalesse ad occultarne ulteriormente il ruolo di pioniere di quegli studi sulla scultura a cui Malaguzzi aveva abbondantemente attinto. Come se non bastasse, egli si rivolgeva in primis proprio al pubblico tedesco, che pochi anni prima aveva potuto leggere la recensione di Semper al Gio. Antonio Amadeo.
Al riscatto personale, che nel 1907 aveva visto la firma di Malaguzzi in calce alla corposa voce dedicata ad Amadeo sul primo volume del Thieme-Becker (nota 60), si abbinava con evidenza un’istanza di carattere nazionalistico: la stessa che stava dietro alle parole di Venturi sul “povero A.G. Meyer”. Venturi – c’è da scommetterlo – mai si sarebbe espresso in questo modo una ventina d’anni prima, ai tempi del “quasi nulla l’Italia ha prodotto che abbia l’elevatezza, lo spirito fine, la minuta ricerca della nuova scuola critica tedesca”. Eppure, già lo stesso articolo del 1887 prefigurava l’ambizione al superamento di quel complesso di inferiorità (che era ancor più un’inferiorità di fatto): “l’enorme lavoro della critica tedesca verrà riveduto e corretto un giorno, depurato da tutto ciò che, a causa delle differenze di razza, di abitudini, di tradizioni, di sentimenti, intorbida i risultati scientifici […]; ma resterà sempre un tesoro di osservazioni analitiche, di riscontri ingegnosi, di ricerche ampie e indefesse” (nota 61).
Nello stesso anno, ancor prima dell’avvio delle pubblicazioni di “Archivio Storico dell’Arte”, Gabriele D’Annunzio, aveva salutato la nascita di questa prima rivista italiana di storia dell’arte enunciandone lo scopo principale nel bisogno di “venire al paragone con quante più autorevoli pubblicazioni dello stesso genere ha l’estero” (nota 62).
È un ciclo che in qualche modo si compiva col discorso inaugurale di Venturi per l’anno scolastico 1904-1905 all’università di Roma, proprio in concomitanza con l’uscita del Gio. Antonio Amadeo:
“Non più l’Italia è immemore dell’arte sua: i giovani, non più estranei in casa loro, imparano ad amare quest’arte, a guardarla come fiore della vita e come insegna di gloria […]. Gli studiosi stranieri hanno fatto miracoli, trattando dell’arte nostra, intravveduta come dai finestrini d’una carrozza ferroviaria; ma chi è familiare con l’antico, chi respira e vive dove respirarono e vissero i nostri padri, otterrà maggiori risultanze” (nota 63).
Non a caso, anche il Gio. Antonio Amadeo di Malaguzzi veniva subito recensito in Italia con analoghi accenti, nell’elogio all’editore (l’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo) che con quel libro inaugurava una collana di monografie artistiche, “dando una prova di intelligente coraggio e rimediando finalmente al vergognoso sconcio che l’Italia fosse costretta a ricorrere a editori stranieri e a imparare un’altra lingua per apprendere la storia della propria arte” (nota 64).
Pare pertanto chiaro che anche questo aspetto di orgoglio nazionalistico abbia contribuito non poco alla favorevole accoglienza in patria del libro di Malaguzzi, testimoniata da tutte le recensioni (nota 65), cui fecero eccezione unicamente i giudizi di Venturi, dettati più che altro da pesanti rancori personali, come si è potuto vedere. La sola valutazione su basi puramente scientifiche – non a caso tutt’altro che accomodante – è la già esaminata recensione di Hans Semper, il quale doveva avere anche avvertito i segni di un serpeggiante nazionalismo nei ringraziamenti rivolti da Malaguzzi a studiosi soltanto italiani, nonostante il debito nei confronti di Meyer rasentasse fattivamente il plagio.

L’eredità del falso capostipite
Alfred Gotthold Meyer morì prematuramente a quarant’anni, sul finire del 1904 (nota 66). Poiché nello stesso anno era stato pubblicato il Gio. Antonio Amadeo, è assai probabile che tra gli ultimi e più amari episodi della sua vita gli fosse capitato di ritrovarsi tra le mani quel libro. Non vi è dubbio che agli studi italiani avrebbe giovato infinitamente di più un’edizione tradotta dell’Oberitalienische Frührenaissance, e non è da escludere che qualcuno, magari lo stesso Meyer, avesse avuto in animo di realizzarla. Il sospetto viene da un fascicolo manoscritto con prove di traduzione italiana del testo, intitolato Edifici ed opere plastiche del Primo Rinascimento in Lombardia, conservato nella biblioteca dell’Università di Heidelberg (nota 67). Purtroppo, non sono note le origini di questo fascicolo, che non mi è stato possibile consultare, e che venne acquistato presso un commerciante di libri nel 2008.
Le carenze di Malaguzzi come studioso, più precisamente come critico – quelle, cioè, ravvisate da Venturi fin da subito -, gli pesarono enormemente di più nell’approccio con la scultura che con la pittura, rispetto alla quale ultima poté contare sul confronto con colleghi autorevoli e su un retroterra meglio formato, nonché sull’impareggiabile ‘palestra’ del catalogo di Brera. Questo smisurato scompenso è ben illustrato anche molti anni dopo il Gio. Antonio Amadeo dal pretenzioso quanto modestissimo volume Leonardo da Vinci e la scultura (nota 68).
Nonostante ciò, per quanto a tutt’oggi non se ne abbia la dovuta consapevolezza, Malaguzzi ricoprì una posizione di assoluto primo piano nella storia degli studi italiani sulla scultura lombarda del tardo Quattrocento, e non solo per il suo ruolo di iniziatore in patria. Non è un caso che nel corposo volume qui abbondantemente citato, ove sono raccolti gli atti del convegno del 2011 dedicato appunto a Malaguzzi Valeri – eccezionale e irrinunciabile strumento per la conoscenza del personaggio – il libro su Amadeo venga ricordato quasi incidentalmente solo in alcuni punti, senza essere oggetto di un contributo specifico, come invece avrebbe meritato, senz’altro molto di più di altri temi a cui si è scelto di dare rilievo autonomo.
È un difetto di coscienza che offre una chiara conferma di quanto debole e risibile, in termini di intelligenza critica, sia stato l’effettivo contributo di Malaguzzi in questo campo di studi, al di là del facile topos di Amadeo quale principale innovatore della scultura in Lombardia: un rassicurante luogo comune, un ferrovecchio ormai inadeguato alla comprensione di un contesto che si scopre sempre più articolato e complesso di quanto possa lasciare intendere una simile formula, tuttavia ancor oggi straordinariamente in auge (nota 69).
Ma, di questa eredità di Malaguzzi, ancor più pernicioso è l’imprinting pure inconsapevolmente recepito da buona parte degli studi, mutuato dall’esempio di approccio improvvisato alla materia, di dedizione occasionale alla lettura stilistica e della ricerca documentaria intesa come lasciapassare alla comprensione di oggetti di studio tanto complessi. Ad onta di ciò, non sono mancati e non mancano studiosi per così dire occasionali, capaci di dare un contributo rilevante, talora davvero fondamentale, al progresso delle conoscenze. Il problema è che con Malaguzzi si è cominciato a preparare un terreno aperto alla coltivazione di ambizioni carrieristiche, favorite, allora come oggi, dalla mancanza di un referente o di una tradizione autorevoli, non surrogabili da una mera autorità investita di potere accademico, tenuta d’ufficio a farne le veci. Tanto che tra gli stessi rappresentanti di tale autorità c’è stato chi ha avuto gioco facile a coltivare un personale orticello proprio in quel terreno, difendendolo con le unghie e coi denti da eventuali detrattori.
Effetto collaterale è quella degenerazione dialettica esemplata dalle “polemiche artistiche” tra Malaguzzi e Venturi: emblematico e paradigmatico atto di nascita di un vizio fatalmente destinato a replicarsi in questo settore, ad ogni messa in discussione di qualche teoria o di qualche ricostruzione sostenuta da figure investite del potere suddetto. Venturi, eccezionale catalizzatore di conflitti di interesse, era una perfetta incarnazione di quella tendenza tipicamente italiana a creare feudi di potere personale all’interno di istituzioni pubbliche, con l’immancabile e variopinto contorno di servi, questuanti e opportunisti. Sarebbe tutt’altro che strano, alla luce di ciò, se le celebri e sistematiche stroncature operate dal giovane Roberto Longhi tra il 1914 e il 1917 dei volumi di Malaguzzi La Corte di Lodovico il Moro (nota 70) avessero rappresentato in realtà anche una vendetta per procura da parte di Venturi nei confronti dell’odiato rivale, piuttosto che uno spontaneo atto di compiacenza di Longhi nei confronti di Venturi, del quale era allora era allievo alla scuola di specializzazione di Roma, ma a cui era anche personalmente legato da aspettative di carriera (nota 71).
L’aspetto forse più grave del lascito malaguzziano è però il fattivo occultamento presso il pubblico italiano (e non solo) dell’autentica natura istituzionale e del ruolo di vero capostipite del libro di Meyer. Sovrapponendosi all’Oberitalienische Frührenaissance, pubblicato unicamente in lingua tedesca, il Gio. Antonio Amadeo ha finito per svolgere nei confronti di quest’opera un’azione di filtraggio selettivo, trasmettendone i contenuti che aveva fatto propri e tralasciandone altri. Chi scrive non ha sufficienti competenze in storia dell’architettura per poter stabilire se nel conto rientrino anche i meriti effettivi della riscoperta moderna di Bramante, oggi attribuiti sostanzialmente a Malaguzzi Valeri. In tal senso pesa molto un appunto in nota di Richard Schofield nel saggio Bramante dopo Malaguzzi Valeri: “A onor del vero l’eccellente A.G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance […], sembra svolgere spesso considerazioni più perspicaci sull’architettura e sulla scultura, ma non possiede la mole documentaria di cui dispone Malaguzzi Valeri” (nota 72). Viene da chiedersi se, anche in questo caso, Malaguzzi avesse semplicemente arricchito il corpus dei documenti, facendo poi passare per farina del proprio sacco anche il quadro interpretativo di riferimento.

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Il presente testo nasce lontano, nel profondo di interessi di studio coltivati per decenni. Chi l’ha scritto ha potuto nel corso del tempo discutere di questi argomenti con gli amici Lara Calderari, Cecilia Cavalca, Matteo Ceriana, Edoardo Villata, a cui vanno ora i più sentiti ringraziamenti. Esprime anche la più viva gratitudine ad Alexander Auf der Heyde, col quale ha avuto il privilegio di confrontarsi. Un sentito grazie anche a Maria Effinger della biblioteca dell’Università Heidelberg e Alessandro Tonacci della biblioteca e archivio del Vittoriale degli Italiani.

NOTE

[1] M. Moizi, Tommaso Rodari e il Rinascimento comasco. Un’indagine sul cantiere del Duomo di Como tra XV e XVI secolo, Cinisello Balsamo 2020.

[2] F. Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo, scultore e architetto lombardo (1447-1522), Bergamo 1904. Per quanto di carattere monografico, sono di tutt’altro genere – non rientranti nel nostro discorso – libri come quello di F.M. Ferro, Giovanni A. Amadeo, Milano 1966 (di taglio ridotto, per la collana Maestri della scultura), o quello di P. Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo Romano, Napoli 2010 (una raccolta di studi, non una monografia organicamente intesa).

[3] M. Albertario, F. Cavalieri, V. Zani, La prima età sforzesca, in Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, catalogo della mostra (Milano, marzo-giugno 2015) a cura di M. Natale e S. Romano, Milano 2015, pp. 243-247.

[4] La concorrenza tra le due imprese si giocò principalmente nei lavori per la decorazione della facciata della chiesa, rimasta incompiuta in tale occasione e ampiamente modificata nel corso dei tempi. Com’è noto, l’appalto era stato assegnato ai Mantegazza nel 1473, ma l’anno seguente Amadeo riuscì a far sì che venisse suddiviso, ottenendone una metà. In vista di ciò, già nel 1473 egli aveva stipulato separatamente un patto societario coi colleghi che avrebbero dovuto condividere con lui l’incombenza (Piatti, Giangiacomo Dolcebuono, Lazzaro Palazzi e Angelino da Lecco). La notizia di questo accordo è relativamente recente (Giovanni Antonio Amadeo. Documents / I documenti, a cura di R.V. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Como 1989, pp. 99-101, doc. 13) e si inserisce in una vicenda documentaria già nota da tempo, relativamente ai lavori per la facciata (ripercorsa da C. Morscheck, Relief sculpture for the facade of the Certosa di Pavia 1473-1499, New York-London 1978, pp. 33-48; M.G. Albertini Ottolenghi, La Certosa di Pavia, in Storia di Pavia, vol. III, t. III, Milano 1996, pp. 606-616). L’opinione secondo cui tale patto societario non avrebbe avuto seguito operativo (C. Morscheck, Antonio Mantegazza and Giovanni Antonio Piatti: new documents and clarifications, in La Certosa di Pavia e il suo Museo. Ultimi restauri e nuovi studi, atti del convegno (Pavia, giugno 2005) a cura di B. Bentivoglio-Ravasio, Milano 2008, pp. 153) è contraddetta dalla circostanza documentata che vide Piatti e Dolcebuono ritirare tra il 1475 e il 1476 presso la Fabbrica del Duomo di Milano quantità di marmi, anche ingenti, dichiaratamente destinati alla Certosa di Pavia (V. Zani, La scultura della facciata fino al 1550, in Certosa di Pavia, a cura di F.M. Ricci e L. Casalis, Parma 2006, p. 68). Per un tentativo di identificazione di alcuni lavori della società Amadeo-Piatti (che dovette cessare agli inizi del 1480, con la morte di quest’ultimo), si veda V. Zani, in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea, Tomo secondo, a cura di M.T. Fiorio, Milano 2013, pp. 50-56; Id., scheda in Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, cit., p. 298, cat. IV.28.

[5] Giovanni Antonio Amadeo. Documents, cit.; M.P. Zanoboni, Il contratto di apprendistato di Giovanni Antonio Amadeo, in “Nuova Rivista Storica”, LXXIX, 1995, pp. 143-150.

[6] Oltre alla monografia di Malaguzzi Valeri (citata alla nota 2), ci si riferisce a Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura del suo tempo, atti del convegno (Milano, Bergamo, Pavia, 21-24 aprile 1992) a cura di J. Shell e L. Castelfranchi, Milano 1993.

[7] Sulla figura di Malaguzzi Valeri si rimanda ai saggi contenuti in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013; per una rassegna approssimativamente completa dei suoi scritti cfr.: A.M. Mucchi, Francesco Malaguzzi Valeri. 23 ottobre 1867 – 23 settembre 1928. Cenni biografici, in “Cronache d’Arte”, 5-6, 1928, pp. 327-338.

[8] Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio, cit., p. 6.

[9] Su Bode si rimanda a F. Caglioti, Su Wilhelm von Bode (1845-1929), in I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento, a cura di F. Caglioti, A. De Marchi, A. Nova, Milano 2018, pp. 73-86. Nel 1892 Donatello “continua ad essere l’artista di moda per una gran parte degli storici dell’arte in Germania” (H. Semper, Germania. Rassegna bibliografica dei lavori tedeschi sulla storia dell’arte italiana, pubblicati negli ultimi anni, in: “Archivio storico italiano”, s. V, t. IX, 1892, p. 421).

[10] A.G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei. Zweiter Theil. Die Blüthezeit, Berlin 1900; Id., Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei. Erster Theil. Die Gothik des Mailänder Domes und der Übergangsstil, Berlin 1897. Sullo studioso sono oggi essenziali le notizie e le valutazioni critiche di A. Auf der Heyde, Canova divulgato tra “Können” e “Wollen” nell’opera di Alfred Gotthold Meyer, in A.G. Meyer, Canova, con introduzione e traduzione in italiano di A. Auf der Heyde, Bassano del Grappa 2014, pp. 7-25.

[11] Come il De Sculptura di Pomponio Gaurico, stampato a Firenze nel 1504, che citava Cristoforo Solari e Gasparo Cairano (Meyer, Oberitalienische (1900), cit., pp. 240, 248).

[12] A.G. Meyer, Die Colleoni-Kapelle zu Bergamo, in “Jahrbuch der Preußischen Kunstsammlungen”, 15, 1894, pp. 5-22; Id., Studien zur Geschichte der oberitalienischen Plastik im Trecento, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 17, 1894, pp. 18-37; Id., Der Meister des S. Abondio-Altars im Dom von Como, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 20, 1897, pp. 147-150; Id., Über das Borromeo-Denkmal auf Isola Bella, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 20, 1897, pp. 505-507; Id., Die Certosa bei Pavia, Berlin 1900. Meyer pubblicò in seguito anche una monografia su Donatello (Id., Donatello, Bielefeld 1903), e un articolo sulla sua moderna vicenda critica (Id., Zur Donatello-Kritik, in “Kunstchronik”, 15, 1904, pp. 360-364).

[13] G. Crugnola, Il primo Rinascimento lombardo nel periodo de suo apogeo (recensione ad A.G. Meyer, Oberitalieniscihe Frührenaissance, vol. 2), in “L’Ingegneria Civile e le Arti Industriali”, 27, 1901, pp. 145-150, 165-174, 183-189 (lo stesso autore aveva già recensito il primo volume del libro di Meyer: Id., Il Gotico del Duomo di Milano e i monumenti lombardi dello stile di transizione, in “L’Ingegneria Civile e le Arti Industriali”, 25, 1899, pp. 40-47; G. Fogolari, recensione ad A. G. Meyer, Oberitalieniscihe Frührenaissance, vol. 2, in “L’Arte”, IV, 1901, pp. 54-55; F. Malaguzzi Valeri, recensione a A.G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance, in “Archivio Storico Lombardo”, s. III, XXVII, XV, 30, 1901, pp. 363-368; M. Mariani, recensione ad A.G. Meyer, Oberitalieniscihe Frührenaissance, vol. 2, in “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria”, I, 1901, pp. 84-92.

[14] A.G. Meyer, Quale incitamento trovò Bramante in patria, in “Rassegna Bibliografica dell’Arte Italiana”, III, 3-5, 1900, pp. 41-53 (a p. 41, una nota in asterisco al titolo, firmata “La direzione”, riferisce che “Alla gentilezza del dotto critico berlinese, il prof. Alfred G. Meyer, dobbiamo il piacere di poter offrire, quale primizia agli amici lettori, il III capitolo del vol. II dell’opera splendidamente illustrata: Oberitalieniscihe Frührenaissance, che vedrà la luce entro la primavera, a cura dell’ Editore Wilhelm Ernest et Sohn di Berlino”. In realtà non è riprodotto l’intero terzo capitolo del libro di Meyer ma solo i paragrafi dalla p. 49 alla p. 57).

[15] G. Fogolari, recensione ad A. G. Meyer, cit., p. 54.

[16] “Se tante luminose prove noi non avessimo dell’amore col quale gli stranieri, specialmente i Tedeschi, studiano i tesori artistici del nostro paese, una luminosissima ne porgerebbe il nuovo volume: sul fiorire della rinascenza in Lombardia in fatto di edificazioni e di opere scultoree, recentemente pubblicato dall’illustre Dott. Alfredo Gottoldo Meyer, professore alla Scuola tecnica superiore di Berlino. Leggendolo e studiandolo si fa strada in noi la persuasione che questi stranieri scendono in Italia con mirabile fornimento di cognizioni, e coll’esame paziente e minuzioso delle fonti nostrane, con una logica stringente ed una rigorosa critica, che non trascurano i più umili elementi di convinzione, tendono spesso a mostrare a noi possessori, le bellezze e il valore di molte opere da noi o trascurate, o mal conosciute, o non apprezzate al giusto” (Mariani, recensione ad A.G. Meyer, cit., p. 84). “Il dott. Meyer nulla ha trascurato; ha fatto tesoro di tutta la bibliografia esistente, risalendo alle fonti più antiche, anche manoscritte e fino alle pubblicazioni più recenti; ed ha saputo utilizzarle con discernimento critico, vagliando accuratamente ed eliminando ciò che non era attendibile. Ma più che nella bibliografia, più che nei documenti scritti, egli ha saputo leggere in quelle splendide creazioni dell’arte, che costituiscono appunto lo stile descritto e che meglio di ogni altro documento possono fare la storia dell’arte; e da questa sua lettura ha tratto il mezzo più potente e più sicuro, e prima di lui non impiegato ancora in sì larga scala, per apprezzare i monumenti e ricercarne col paragone delle varie maniere i loro autori” (Crugnola, Il primo Rinascimento lombardo, cit., p. 145).

[17] “Il suo studio analitico e profondo è della maggiore importanza. Le figure dei maestri lombardi escono da quest’esame più nitide e precise e la loro attività vien studiata con criterii d’artista severo ma giusto che, nel grande quadro dell’evoluzione di tutta una scuola e de’ suoi influssi anche in altre regioni, non perde mai di vista lo sfondo del quadro entro il quale il gruppo delle sue figure si agita e produce. In tal modo l’opera sua di fervente cultore degli studi d’arte lombarda è di una utilità senza pari. I capitoli dedicati ai varii indirizzi artistici che si svilupparono intorno alle maestranze applicate ai lavori della Certosa, del duomo di Milano, del duomo di Como e ai centri minori si potranno consultare con la maggiore utilità anche quando nuove scoperte dovranno allargare il campo d’ osservazione. Per questo dobbiamo esser grati al Meyer della cura e dello spirito analittico delle ricerche stilistiche messe a contributo dell’importante argomento che troverà sempre cultori appassionati e ammiratori convinti” (Malaguzzi Valeri, recensione a A.G. Meyer, cit., p. 368).

[18] F. Malaguzzi Valeri, Note sulla scultura lombarda, in “Rassegna d’arte”, 2, 1902, p. 24.

[19] Il primo profilo biografico di Amadeo sembra essere quello redatto nel secondo Settecento da Anton Francesco Albuzzi (Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e architetti milanesi, a cura di S. Bruzzese, Milano 2015, pp. 95-119), rimasto manoscritto ma ben noto ai cultori successivi. Seguì, poco meno di un secolo dopo, quello ampliato con nuove acquisizioni documentarie di Gerolamo Luigi Calvi (Notizie sulla vita e sulle opere dei principali architetti scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, II, Milano 1865, pp. 142-174), su cui si basarono quelli di Charles Perkins (Italian sculptors: being a history of sculpture in northern, southern, and eastern Italy, London 1868, pp. 127-137) e di Julius Meyer (in Allgemeines Künstler-Lexikon unter Mitwirkung der namhaftesten Fachgelehrten des In-und Auslandes, I, Leipzig 1872, pp. 575-586, s.v. Amadeo, Giovanni Antonio; questa voce biografica fu ripubblicata in italiano, con traduzione e un’appendice di G. Frizzoni, in “Il Buonarroti. Scritti sopra le arti e le lettere”, VIII, 1873, pp. 7-22, 35-47).

[20] C. Magenta, La Certosa di Pavia, Milano 1897, p. 61; Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio, cit., pp. 265-266; a dire il vero, anche Meyer (Oberitalienische (1900), cit., pp. 25-26) omette di fare cenno a studi precedenti riguardo a quest’opera, che da lui in poi verrà unanimemente considerata un lavoro giovanile di Amadeo. L’omissione è senz’altro una pecca, del tutto eccezionale e non, come invece in Malaguzzi, rispondente a una sorta di regola.

[21] Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio, cit., pp. 262-264; la revisione cronologica era dovuta P. Prelini (Note storiche intorno al tempio e al monastero di San Lanfranco presso Pavia, in “Almanacco Sacro Pavese” 1875 (Appendice), p. 12), dovutamente citato da Meyer (Oberitalienische (1900), cit., pp. 170-171). La revisione era accolta anche da Magenta (La Certosa, cit., p. 115) senza menzionare Prelini e ricordando invece un “G. Meyer“, corrispondente non al Nostro, bensì allo Julius qui citato due note sopra, la cui iniziale stava per l’italianizzazione in “Giulio”.

[22] Perkins, Italian sculptors, cit., p. 127.

[23] Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio, cit., pp. 6-7.

[24] H. Semper, recensione F. Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo, Scultore e architetto lombardo. (1447-1522), in “Monatshefte der kunstwissenschaftlichen Literatur”, 1, 1905, pp. 39-41.

[25] Auf der Heyde, Canova divulgato, cit., p. 20.

[26] G. C. Sciolla, Tra “Kunstwissenschaft” e “Kunstgeschichte als Kulturgeschichte”. Francesco Malaguzzi Valeri, le ricerche storico-artistiche e l’impegno per la tutela e la conservazione in Italia ed Europa tra Ottocento e Novecento, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 11-23.

[27] A. Venturi, Per la Storia dell’Arte, in “Rivista Storica Italiana”, IV, 1887, pp. 229-250. Per un esame integrale di questo articolo, che ebbe un peso determinante nella ricostituzione in Italia della storia dell’arte come disciplina e del suo ruolo nella società, si rimanda alla lettura che ne diede anni fa Giacomo Agosti (La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi dal museo all’università (1880-1949), Venezia 1996, pp. 61-68).

[28] U: Kultermann, Storia della storia dell’arte, Vicenza 1997, pp. 97-102.

[29] Al riguardo si rimanda anche alle recensioni di Mariani e Crugnola citate alla nota 16. Per Venturi, l’esempio germanico si imponeva anche nel fatto che “i Tedeschi corrono l’Europa, su e già pei Musei, con rotoli di fotografie; e gl’Italiani invece sono divenuti sedentari, e poco fanno uso della fotografia […]. Inventata la fotografia, la critica artistica fece un gran passo al di là delle Alpi; poiché furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera d’arte, e il metodo divenne più corretto e sicuro. Ma da noi si è tanto poco disposti ad usare il nuovo mezzo di confronto che nessuna biblioteca italiana pensa certo ad accogliere fra i suoi scaffali i documenti primi della storia artistica, le fotografie inalterabili, vive e vere traduzioni de’ nostri capolavori disseminati in Europa” (Venturi, Per la storia dell’arte, cit., p. 231). Sotto questo aspetto, per quanto riguarda lo specifico dello studio della scultura, la maturità del mondo germanico si può evincere anche solo dal titolo del saggio del 1896 di Heinrich Wölfflin, Wie man Skulpturen aufnehmen soll? Probleme der italienischen Renaissance (Come si devono fotografare le sculture? Problemi del Rinascimento italiano), non meno che dalle distinzioni di Wilhelm Bode sulla fedeltà dei diversi tipi di riproduzione grafica delle opere plastiche (come riferito da Auf der Heyde, Canova divulgato, cit., pp. 16-18).

[30] Venturi, Per la storia, cit., p. 232; si veda Agosti, La nascita, cit., pp. 61-79.

[31] Per questi aspetti biografici su Venturi si rimanda alla voce di M. Cavenago, Venturi, Adolfo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 98, Roma 2020, pp. 630-634; su Malaguzzi Valeri a quella di S. Sicoli, Malaguzzi Valeri, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 67, Roma 2006, pp. 731-733.

[32] E. Corradini, Francesco Malaguzzi Valeri: le ricerche storico artistiche a Reggio Emilia, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 25-29; per le lettere dei famigliari, Ibid., pp. 37-38.

[33] Agosti, La nascita, cit., pp. 75-79; si vedano inoltre i contributi nel volume L’«Archivio Storico dell’Arte» e la nascita della «Kunstwissenschaft» in Italia,  a cura di G. C. Sciolla e F. Varallo, Alessandria 1999; infine, F. Papi, Adolfo Venturi fra letterati e connaisseurs: la fondazione dell’«Archivio Storico dell’Arte» attraverso le lettere edite e inedite di Venturi, Gnoli e Cantalamessa, in Adolfo Venturi e la storia dell’arte oggi, atti del convegno (Roma, ottobre 2006) a cura di M. D’Onofrio, Modena 2008, pp. 237-243.

[34] Sulla libera docenza e sulla successiva cattedra universitaria di Venturi vedi Agosti, La nascita della storia dell’arte, cit., pp. 88-98; M. Moretti, Una cattedra per chiara fama. Alcuni documenti sulla ‘carriera’ di Adolfo Venturi e sull’insegnamento universitario della storia dell’arte in Italia, in Incontri venturiani (22 gennaio – 11 giugno 1991), a cura di Giacomo Agosti, Pisa 1995, pp. 39-99; S. Valeri, Adolfo Venturi all’Università di Roma. Regesti e annotazioni sui primi anni di vita della scuola venturiana (1890-1931), in Ibid., pp. 101-152). Sugli anni del ritorno a Reggio Emilia di Malaguzzi vedi ancora Corradini, Francesco Malaguzzi Valeri: le ricerche, cit., pp. 29-36.

[35] F. Malaguzzi Valeri, Lo scultore Prospero Spani detto il Clemente, in “Atti e Memorie delle R.R. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie modenesi e parmensi”, s. IV, vol. IV, 1893, pp. 1-31.

[36] A. Venturi, recensione a Lo scultore Prospero Spani, detto il Clemente, di Francesco Malaguzzi-Valeri, in “Nuova Antologia. Rivista di scienze, lettere ad arti”, XXVIII, s. III, vol. XLV, fascicolo IX, 1893, p. 181.

[37] A. Venturi, La Regia Galleria Estense in Modena, Modena 1882, p. 104; sul rilievo si veda la scheda di A. Bacchi, Prospero Clemente. Uno scultore manierista nella Reggio del ‘500, Milano 2001, p. 201, cat. 27, alla cui bibliografia va aggiunta la recensione di Venturi qui alla nota precedente. Sul catalogo del 1882 si veda Agosti, La nascita, cit., pp. 42-46.

[38] Corradini, Francesco Malaguzzi Valeri: le ricerche, cit., p. 32, come già M. Ferretti, Un’idea di storia, la realtà del museo, il suo demiurgo, in Museo civico d’arte industriale e Galleria Davia Bargellini, a cura di R. Grandi, Bologna 1987, p. 11.

[39] Su questo primo periodo bolognese dello studioso vedi L. Cerasi, Francesco Malaguzzi Valeri archivista a Bologna, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 41-49.

[40] Sul primo approdo milanese di Malaguzzi vedi A. Rovetta, Francesco Malaguzzi Valeri a Milano tra la “Rassegna d’Arte” e La Corte di Lodovico il Moro, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 90-92.

[41] Mucchi, Francesco Malaguzzi Valeri, cit., p. 329.

[42] I rapporti tra i due dovettero guastarsi verso il 1895, cfr. G. Bosi Maramotti, I rapporti di Adolfo Venturi con Corrado Ricci, in Incontri venturiani (22 gennaio – 11 giugno 1991), a cura di Giacomo Agosti, Pisa 1995, pp. 29-38; vedi anche Agosti, La nascita, cit., pp. 111, 136, 168.

[43] Sull’esperienza di Malaguzzi a Brera vedi S. Sicoli, L’Ispettore Malaguzzi Valeri alla pinacoteca di Brera: un decennio di attività, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 217-239; sulla circostanza citata, Ibid., p. 239 e nota 23.

[44] Citazione da Ferretti, Un’idea di storia, cit., p. 13; Sicoli, L’Ispettore Malaguzzi, cit., pp. 228-232; F. Malaguzzi Valeri, Catalogo della R. Pinacoteca di Brera, con cenno storico di Corrado Ricci, Bergamo 1908.

[45] Rovetta, Francesco Malaguzzi Valeri a Milano, cit., pp. 92-95; Id., La «Rassegna d’Arte» di Guido Cagnola e Francesco Malaguzzi Valeri (1908-1914), in Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, atti del convegno (Milano, 30 novembre – 1 dicembre 2006) a cura di R. Cioffi e A. Rovetta, Milano 2007, pp. 281-316.

[46] Mucchi, Francesco Malaguzzi Valeri, cit., pp. 340-343; inoltre qui la precedente nota 43.

[47] M. Rossi, Malaguzzi Valeri e i pittori del Quattrocento, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, p. 127, ove è giustamente evidenziata la singolare personalizzazione del sottotitolo: Ricerche di Francesco Malaguzzi Valeri.

[48] Vedi Agosti, La nascita, cit., pp. 181-185.

[49] A. Venturi, Storia dell’Arte Italiana. La scultura del Quattrocento, Milano 1908; in alcuni casi si trattava di appunti pretestuosi o ingiusti, come ad esempio riguardo alla Madonna col Bambino entro un tabernacolo in via S. Maria Fulcorina a Milano (oggi semidistrutta e attribuita ai Caronesi), che Venturi (p. 835, nota 4) avvicinava alle sculture di Castiglione Olona, lamentando che “niuno tuttavia si è accorto dell’evidente analogia”, laddove Malaguzzi (Gio. Antonio, cit., p. 16), esplicitamente chiamato in causa, ne aveva invece dato debitamente conto. Oppure a proposito di alcuni medaglioni rinascimentali con profili sullo zoccolo della facciata della Certosa di Pavia, ritenuti da Venturi seicenteschi (p. 905, nota 1), in polemica con Malaguzzi e con Meyer. Lamentava poi (p. 906, nota 1) che Matteo Raverti è “mal definito” da Malaguzzi, mentre giustamente osservava (p. 901, nota 1) che il rilievo di Amadeo a Cremona con le S. Francesco che riceve le stimmate era “indicato da Malaguzzi come di un S. Antonio Abate a cui appare il Crocifisso” (Malaguzzi, Gio. Antonio, cit., p. 140, fig. p. 138). Ma vedi soprattutto infra, nota 54.

[50] V.A. (Valerio Acuto, alias F. Malaguzzi Valeri), La scultura lombarda e il VI° volume della storia del Venturi, in “Rassegna d’Arte”, IX, 2, 1909, pp. V-VII.

[51] A. Venturi, Ancora la scultura lombarda nella “Storia dell’Arte” di Adolfo Venturi, in “Rassegna d’Arte”, IX, 6, 1909, pp. 101-102.

[52] F. Malaguzzi Valeri, Ancora la scultura lombarda nella “Storia dell’Arte” di Adolfo Venturi, in “Rassegna d’Arte”, IX, 6, 1909, pp. 102-108.

[53] Venturi, Ancora la scultura, cit., p. 102.

[54] L’articolo di Giulio Carotti (Un insigne monumento dei Borromei all’Isola Bella e una pagina dimenticata della storia della scultura lombarda, in “La Perseveranza”, XXVIII, 24 giugno 1897), precedette al massimo di un mese l’uscita del primo volume di Oberitalienische Frührenaissance, il cui colophon riporta come data della stampa il mese di luglio del 1897 (Meyer, Oberitalienische Frührenaissance, I, 1897, cit., p. 146). Nello stesso 1897, Meyer ripercorse la questione critica in un articolo (A.G. Meyer, Über das Borromeo-Denkmal auf Isola Bella, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 20, 1897, pp. 505-507), mentre tre anni dopo trattò di nuovo del monumento, nel secondo volume di Oberitalienische Frührenaissance, nella cui nota introduttiva (p. III, datata settembre 1900), ringraziava gli studiosi italiani “Luca Beltrami, Giulio Carotti, Cesa-Bianchi, Gaetano Moretti, Diego Sant’Ambrogio in Mailand, Santo Monti in Como, Rodolfo Majocchi in Pavia, Luigi Arcioni und Pietro da Ponte in Brescia, Egidio Calzini in Ascoli Piceno”. Con Carotti e Meyer si era immediatamente schierato anche Gustavo Frizzoni (recensione a D. Sant’Ambrogio, I sarcofagi Borromeo ed il monumento dei Birago all’Isola Bella, in “Rassegna bibliografica dell’arte italiana”, I, 1898, pp. 42-45).

[55] Sui buoni rapporti tra i due vedi Agosti, La nascita, cit., p. 141.

[56] Venturi, Storia dell’Arte, cit., pp. 905, nota 2, 906, nota 1.

[57] A. M. Schulz, Late Gothic sculpture in northern Italy: Andrea Da Giona and i Maestri Caranesi. An addition to the Pantheon of Venetian sculptors, London 2022 (sul monumento Borromeo, pp. 131-141, cat. 22).

[58] Con altri defunti nel 1928, Venturi ricordava “il Conte Francesco Malaguzzi Valeri, che nella giovinezza si era dedicato, prima a ricercar negli archivi di Modena, Bologna e Milano documenti relativi alla storia dell’arte, poi a comporre monografie sulla base di quelle notizie. Attivissimo, diresse periodici d’arte, pubblicò una quantità di volumi, contribuì con fervore agli studi. Ispettore della galleria di Brera a Milano, direttore della Galleria di Bologna, si prodigò, con animo sincero sempre, a beneficio di quelle istituzioni e dei patrii monumenti. Collaboratore nostro sulle pagine dell’”Archivio Storico dell’Arte”, da cui “L’Arte” nacque, egli ci rimase grato anche quando si assentò dalla nostra casa che gli avevamo aperta ospitale. Nato il 25 ottobre 1867, sparve d’improvviso la mattina del 23 settembre u.s., rimpianto da quanti onorano nobiltà di nome e di vita” (A. Venturi, A ricordo, in “L’Arte”, XXXII (1929), p. 48).
Il disprezzo per le qualità critiche di Malaguzzi, contrapposto al riconoscimento delle sue capacità come ricercatore d’archivio era stato ribadito da Venturi anche nel 1914, nel verbale del giudizio del concorso per la direzione della Pinacoteca di Bologna, vinto comunque da Malaguzzi, reduce dalla traumatica esperienza milanese: “senza le carte d’archivio, questi è malcerto, tra le opinioni discordanti tentennante, ne’ confronti non sodo, nelle analisi non penetrante. Tuttavia, vivendo egli a Milano, in luogo dove la critica, dal Morelli al Frizzoni, si è divulgata, il Malaguzzi ha sentito la manchevolezza del suo lavoro, e si è industriato a completare il metodo, a trarre dall’osservazione diretta  delle opere di arte conforto agli studi” (G.P. Cammarota, Malaguzzi Valeri direttore e soprintendente, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, p. 295). Sullo scandalo degli oltre quattrocento dipinti sottratti da Malaguzzi alla pinacoteca di Bologna vedi L. Ciancabilla, Bologna «Mecca degli antiquari». L’affaire Malaguzzi Valeri, in Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928) tra storiografia artistica, museo e tutela, atti del convegno (Milano e Bologna, ottobre 2011) a cura di A Rovetta e G.C. Sciolla, Milano 2013, pp. 361-371.

[59] F. Malaguzzi Valeri, San Colombano al Lambro e le sue opere d’ arte, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 32, 1909, p. 115.

[60] F. Malaguzzi Valeri, Amadeo, Giovanni Antonio, in Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, I, Leipzig 1907, pp. 367-371.

[61] Venturi, Per la storia, cit., p. 231.

[62] Il Duca Minimo (G. D’Annunzio), L’Archivio Storico dell’Arte, in “La Tribuna”, 11 nov. 1887, ora in G. D’Annunzio, Scritti giornalistici 1882-1888, I, a cura di A. Andreoli, Milano 1996, pp. 954-955; l’articolo non mi pare abbia però un’enfasi nazionalistica così tanto calcata, come sarebbe facile evincere da F. Papi, Adolfo Venturi fra letterati e connoisseurs, cit., p. 237.

[63] A. Venturi, La storia dell’arte, Roma 1905, pp. 5, 12.

[64] G. Poggi, recensione a F. Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo, in “Il Marzocco”, A. IX, n. 31, 18 dicembre 1904, p. 2.

[65] R. Maiocchi, recensione a F. Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo, in “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria”, IV, 4, 1904, pp. 611-613; l’introduzione del libro, con la firma dell’autore era stata riprodotta col titolo Un grande artista italiano poco conosciuto, su “Illustrazione Popolare. Giornale per le famiglie” (XXXVI, 8, 22 gennaio 1904, pp. 124-125).

[66] Per la precisione il 17 dicembre, come riportano i necrologi, come quello firmato “G” su “Kunstchronik. Wochenschrift für Kunst und Kunstgewerbe”, 16, 10, 1904-1905, p. 158. L’autore potrebbe essere forse Georg Gronau, che qualche anno prima aveva pubblicato una non breve recensione dell’Oberitalienische Frührenaissance, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, XXIV, 1901, pp. 394-404.

[67] Si veda il catalogo in rete [ vedi ]

[68] F. Malaguzzi Valeri, Leonardo da Vinci e la scultura, Bologna 1922.

[69] Di recente Amadeo è stato definito addirittura “il vero patriarca del Rinascimento in Lombardia” (L. Cavazzini, A. Galli, Giovanni Antonio Amadeo, Madonna del latte, scheda in La Collezione Cerruti. Catalogo generale, a cura di C. Christov-Bakargiev, II, Torino 2021, pp. 50-51).

[70] Sulle stroncature di Longhi ai primi tre volumi de La corte di Lodovico il Moro sono essenziali Ferretti, Un’idea di storia, cit,. pp. 9-15; Rovetta, Francesco Malaguzzi Valeri a Milano, cit., pp. 98-105; le tre recensioni nell’ordine, apparvero su “L’Arte”, 17, 1914, pp. 76-78; 18, 1916, pp. 356-360; 19, 1917, pp. 297-299; riedite in R. Longhi, Opere complete, I, Scritti giovanili 1912-1922, Firenze 1961, pp. 165-168, 290-299, 377-382.

[71] Tra il 1916 e il 1917, Longhi fu raccomandato da Venturi sia per la copertura di una cattedra all’università di Pavia (Agosti, La nascita, cit., p. 215), sia per la condirezione di “Rassegna d’Arte” – in sostituzione di Malaguzzi, trasferitosi a Bologna -, ma entrambi i tentativi non ebbero successo (S. Facchinetti, Longhi, Roberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, 65, Roma 2005, p. 671); anzi, nel  settembre 1916, Guido Cagnola si rallegrava in una lettera di non avere accettato l’invito di Adolfo Venturi di inserire Roberto Longhi nella direzione di Rassegna d’Arte dopo che Malaguzzi aveva lasciato Milano (Rovetta, La “Rassegna d’Arte” di Guido Cagnola, cit., pp. 306-307 n. C.5). Sul rapporto tra Longhi e Venturi si veda S. Facchinetti, Dati e date: sul rapporto tra Adolfo Venturi e Roberto Longhi, in Adolfo Venturi e la storia dell’arte oggi, atti del convegno (Roma, ottobre 2006), a cura di M. D’Onofrio, Modena 2008, pp.  101-106.

[72] R. Schofield, Bramante dopo Malaguzzi Valeri, in “Arte Lombarda”, 167, 1, 2013, pp. 5-51.

Dicembre 2023

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Post-Scriptum [6.12.2023]
La dottoressa Maria Effinger della Biblioteca dell’Università di Heidelberg, che ringraziamo nuovamente, segnala che la copia digitale del corposo manoscritto di oltre 750 pagine con la traduzione del testo di Meyer (qui citato alla nota 67) è ora disponibile sul sito della Biblioteca a questo indirizzo: https://doi.org/10.11588/diglit.67368.