Donato de’ Bardi e la Crocifissione della Pinacoteca Civica di Savona
di Francesca Ronchi
In una delle quiete sale della Pinacoteca Civica di Savona, in un antico palazzo nobiliare nel cuore medievale della città, si fronteggiano e dialogano due grandi dipinti a loro modo paradigmatici dell’arte italiana del Quattrocento, la pala Fornari di Vincenzo Foppa, e il Cristo in Croce tra le Marie e S. Giovanni Evangelista.
Mentre l’autore del primo di questi due grandi dipinti non necessita di presentazioni, e la sua opera si presenta limpida ai nostri occhi, perfettamente leggibile e inserita a pieno titolo nell’arte della fine del XV secolo, Donato de’ Bardi, l’autore della seconda opera, rappresenta un piccolo – grande mistero nel panorama dell’arte antica italiana, tanto da aver attirato l’interesse di studiosi insigni, primo fra tutti Federico Zeri. Tutto, in questa opera che gli esperti sono giunti a datare tra il 1426 ed il 1450 (anno della morte del pittore) suscita interrogativi di non facile spiegazione, e tutto affascina, proprio per l’aura di mistero che la circonda.
Chi era Donato de’ Bardi (oltre ad essere, per puro caso, l’omonimo di Donatello)? E come faceva a conoscere certe tecniche pittoriche? E quale era la sua cultura? E quale percorso seguì per giungere in Liguria ed a Savona? E quale fu realmente la sua produzione? Per ora, il suo quadro più bello vive giorni felici in una pinacoteca di provincia, attirando di quando in quando l’attenzione di qualche studioso, e poco alla volta Donato e la sua opera, la sua vita, emergono da un lontano passato.
Due caratteristiche colpiscono per prime nell’osservazione del quadro: le sue grandi dimensioni (238 x 165 cm!) ed il fatto che l’opera sia dipinta ad olio su tela. La Crocifissione è con tutta probabilità il più antico quadro ad olio su tela dipinto in Italia; e proprio per questa caratteristica tecnica, per lungo tempo la sua datazione fu spostata in avanti di almeno mezzo secolo. Precedentemente, infatti, la pittura su tela era adottata solo per stendardi o gonfaloni, ed a lungo si è così ritenuto che il quadro di Savona nascesse come tellarium, telo dipinto posto a protezione di una pala d’altare. Ma la qualità del dipinto, la sua evidente preziosità, smentiscono questa ipotesi…
Avvicinandosi all’opera, e dando inizio alla sua lettura, colpisce il fatto che la composizione sia racchiusa in una illusionistica cornice dipinta, una riquadratura decorata a lettere d’oro su fondo scuro, che compongono una invocazione al Cristo. Il richiamo alla Madonna in trono di Jan Van Eyck, conservata a Dresda, è immediato, e tanto più forte se si pensa che quest’ultima fu dipinta nel 1437 per un membro della famiglia Giustiniani di Genova…
Lo sguardo si sposta poi sulle figure dolenti che animano il quadro, ed indaga il paesaggio che le ospita: il Cristo in croce domina col lividore delle sue carni i personaggi che ne piangono la morte, e si staglia sullo sfondo di monti rocciosi ed innevati. Nel loro silenzio di secoli, le tre figure dolenti parlano, e ci dicono che Donato conosceva la pittura e la scultura tardogotiche dell’Europa centro-settentrionale; ci dicono che Donato conosceva la coeva pittura lombarda, le miniature fiamminghe, ed anche ciò che contemporaneamente stava succedendo in Toscana…
Scanditi dalla luce, personaggi e paesaggio sono resi con accuratezza e ricchezza di dettagli; nulla è stato tralasciato, l’azzurro delle vesti è stato ottenuto con l’uso del costosissimo lapislazzulo, i panneggi evocano la scultura borgognona, le aureole suggerite da un’iscrizione dorata (quasi dei piccoli fumetti ante litteram), gli angeli in cielo, con quelle loro ali colorate che sembrano far parte delle vesti, ricordano i figuranti di qualche sacra rappresentazione…
Tutte queste cose ci dicono che l’autore ha viaggiato, ha visto scenari diversi da quelli delle quiete campagne pavesi e dei boscosi monti liguri; ha stretto rapporti, ha colto novità, ha carpito segreti di bottega…
Ai piedi del Battista, un cartiglio rivendica con fierezza la paternità del quadro: l’autore vi si firma “Donatus Comes Bardus Papiensis pinxit hoc opus”…
Chi è dunque questo conte pavese, il cui cognome sembra avere assonanze toscane, così conscio delle proprie capacità da cimentarsi con un’opera di dimensioni notevoli e da rivendicarne orgogliosamente la paternità?
31 Agosto 2007 © riproduzione riservata