Paolo Scalvini intagliatore bresciano del Settecento
di Andrea Bardelli
Nel 2009 Silvia Papetti pubblica sul Bollettino della Società Storica Valtellinese un articolo dal titolo Scultura lignea in Valtellina nel XVIII secolo: la cassa d’organo del santuario della Beata Vergine delle Grazie di Grosotto nel quale parla dell’opera affidata nel 1705 allo scultore Paolo Scalvini.
Le vicende legate alla realizzazione della complessa macchina sono note e, in particolare, il fatto che lo Scalvini avesse abbandonato l’impresa nel 1708 e che al suo posto fosse stato chiamato nel 1713 l’intagliatore trentino Giovanni Battista del Piaz che la portò a termine [Figura 1].
Figura 1. Paolo Scalvini e Giovanni Battista del Piaz, cassa d’organo, circa, Grosotto (So), Santuario della della Beata Vergine delle Grazie.
La Papetti parla dello Scalvini come di uno scultore “altrimenti sconosciuto alla critica”, ossia di un artista del quale non sono noti altri lavori e in questo senso si sono espressi gli studiosi che l’hanno preceduta. In realtà, nel volume Tutti nobilmente lavorati. Arredi lignei della prevostura di Castel Goffredo, curato dal sottoscritto e da Arturo Biondelli, pubblicato nel 2008, la biografia artistica di Paolo Scalvini era stata arricchita dalla scoperta nella prepositurale di sant’Erasmo a Castel Goffredo (Mn) di una cornice intagliata e dorata [Figura 2] che un tempo incorniciava un crocifisso miracoloso [Figura 3].
Figura 2. Paolo Scalvini, cornice intagliata, 1703, Castel Goffredo, prepositurale di Sant’Erasmo.
Figura 3. Crocifisso miracoloso all’interno della cornice di Paolo Scalvini in una foto d’epoca.
Le scheda relative alla cornice di Castel Goffredo e alla biografia artistica di Paolo Scalvini, alle quali si rimanda, sono riportate nelle Appendici 1 e 2.
In considerazione della quasi contemporaneità dei due contributi, nessuna critica può essere mossa a Silvia Papetti, la quale, tra l’altro, nutre il suo saggio con alcune considerazioni di grande interesse e e con inedite notizie biografiche.
In primo luogo, la studiosa prende una posizione piuttosto netta su quella che essa stessa definisce la “vexata questio” della distinzione della mano di Scalvini da quella di Del Piaz, ritenendo, anche sulla base di una più attenta lettura dei documenti, che al primo sia da ascrivere la cassa dell’organo e al secondo la cantoria. La qualità decisamente più alta del registro superiore, ossia della cassa, non immune da influssi da parte dei più noti scultori bresciani Calegari, “fanno dell’intagliatore bresciano [ossia di Paolo Scalvini, ndr] un indiscusso protagonista della scultura lignea lombarda della prima metà del XVIII secolo”.
In secondo luogo, alla Papetti va riconosciuto il grande merito di aver effettuato lo spoglio dei registri della parrocchia dei santi Nazaro e Celso a Brescia, dai quali sono emerse importanti informazioni che consentono definire gli estremi anagrafici di Paolo Scalvini. L’artista nacque il 27 gennaio 1661 da Antonio e Angela Bianchi e morì il 2 luglio 1743. Da altri documenti, risultava residente nel 1723 a Brescia in contrada san Francesco “con esercitio d’intagliatore”, insieme alla moglie Anna Maria Grazioli e numerosi figli (nota).
Al catalogo di Paolo Scalvini possiamo aggiungere un’altra opera: la cornice per un dipinto di Andrea Celesti (Venezia 1637-Toscolano 1712), raffigurante una Madonna con Bambino e santi francescani [Figura 4], che si trova nell’Oratorio di san Francesco a Muratello di Nave (Bs).
Figura 4. Paolo Scalvini, cornice intagliata, 1703, Muratello di Nave (Bs), Oratorio di san Francesco (contenente un dipinto di Andrea Celesti raffigurante una Madonna con Bambino e santi francescani).
La cornice viene eseguita tra il gennaio 1703, in cui Salvini riceve un acconto e il mese successivo in cui gli viene pagato il saldo. Il documento che attesta la paternità dell’opera è stato reso noto da Giuseppe Merlo nel volume Nave nella storia : dalle origini alla prima età napoleonica a cura di Carlo Sabatti e Andrea Minessi (Comune di Nave, 2011).
NOTA
[1] Anna Maria, sposata nel 1690, era figlia di un certo Carlo Grazioli. Questi, definito nell’atto di matrimonio ser e quindi non un artigiano di professione, potrebbe però essere imparentato con Giacinto Grazioli, autore nel 1711 di una soasa lignea dorata con due colonne elicoidali per la tela di Antonio Gandino con la Maddalena penitente nella chiesa bresciana di S.Maria della Carità, detta anche del Buon Pastore. Questo intagliatore sostituì probabilmente Prospero Calabrese col quale in un primo momento era stato stipulato il contratto (fonte: Archivio Antiqua sugli artefici del legno bresciani, inedito).
L’autore ringrazia Arturo Biondelli per la segnalazione della cornice di Muratello di Nave , Giovanni Vanini per la segnalazione dell’articolo di Silvia Papetti ed Elena Longhi della Biblioteca di Nave per avergli fornito diversa documentazione.
La foto della cornice di Castel Goffredo è di Benito Pelizzoni, Castel Goffredo (Mn).
Appendice 1
Paolo Scalvini. Scheda (Bardelli-Biondelli 2008, op. cit., p. 161)
La prima opera a lui riferibile che sia stata documentata è la cornice intagliata e dorata per il Crocifisso Miracoloso della prepositurale di Sant’Erasmo a Castel Goffredo, eseguita nel 1703 e dorata nello stesso anno dal bresciano Felice Bonomelli, attualmente conservata nella Sagrestia nuova di Sant’Erasmo (CG. ASP, AP, Scalvini). Due anni dopo, nel 1705, Paolo si reca in Valtellina, a Grosotto (So) dove prende i primi contatti per realizzare alcune sculture per il Santuario della Madonna delle Grazie, destinate ad ornare la cassa dell’organo. Il contratto viene stipulato nel 1706 e lo Scalvini vi lavora fino al 1708 senza completare l’opera e ripartendo improvvisamente per destinazione ignota. Per dare un giudizio sul lavoro svolto fino a quel momento dallo Scalvini viene chiamato lo scultore veneziano Giambattista Zotti, residente a Sondrio, quindi l’opera è affidata a Giovan Battista del Piaz, con il quale viene stipulato un nuovo contratto nell’aprile del 1713 e che porta a termine il lavoro entro il 1714 (Noè, 1994, 257).
I motivi dell’abbandono del lavoro da parte di Paolo Scalvini, per anni rimasti misteriosi, sono stati svelati solo di recente. In una lettera del 1712, rilasciata dai fabbricieri a un creditore dello Scalvini, si legge che egli aveva “di fatto cominciata e ridotta a buon termine” la cassa dell’organo, ma poi “poiché non potea avere abbondanza di denari, a suo scaltro capriccio o poiché si vedea imbrogliato nell’opera, come abbandonato dagli virtuosi operai, di notte tempo li 26 maggio detto anno 1708 senza saputa d’alcuno s’assentò con la famiglia, o per meglio dire galantemente s’en fuì” (Da Prada, 1986, 144-145). Il nome di Paolo Scalvini viene anche citato da E. Pedrini, ispettore della Soprintendenza nel 1913, in una “Lettera ad una egregia e gentile signorina”, la quale, a quando si desume dal testo “venne a portare luce con le più vaste ricerche” sull’attività di Giovanni Giuseppe Piccini scultore della val di Scalve. In realtà, Pedrini dice che esisteva a Brescia una famiglia Scalvini, discendente dalla famiglia Sghibesi di Schilpario, in Val di Scalve, ma non gli consta che questa famiglia abbia avuto altri artisti. E’ probabile che l’ignota signorina gli chiedesse notizie di un certo Paolo Scalvini, “bresciano”, attivo a Tirano in Valtellina, ma la tesi di Pedrini è che questi non esista e che sia stato confuso nei documenti con la “triade” costituita da Ramus, Fantoni e Piccini. A supporto di questa tesi Pedrini dice che nei documenti valtellinesi, causa l’instabilità politica dell’epoca, si faceva spesso confusione tra i territori bresciano e bergamasco e quindi “non intenteremo a credere che sia stata scambiata la parola bergamasco bresciano per riguardo a Paolo Scalvino” (Pedrini).
Bibliografia
Enrico Noè, Grosotto, santuario di S.M. delle Grazie, Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Settecento, Edizioni Bolis, Bergamo, 1994.
G. Da Prada, Arte organaria a Grosotto tra Sei e Settecento, Bollettino della Società Storica Valtellinese, 1986, n.39.
E. Pedrini, “Lettera ad una egregia e gentile signorina”. Biblioteca di Vilminore (BG). Fondo Pedrini, fascicolo 6/3, riferita da Chiara Spanio in Nuovi Studi. Rivista di arte antica e moderna n. 8 (testo integrale in www.scalve.it.).
Appendice 2
Cornice per il Crocifisso Miracoloso (Bardelli-Biondelli 2008, op. cit., p. 70)
Attualmente appesa alla parete ovest della Sacrestia nuova della prepositurale di Sant’Erasmo, sopra il bancone addossato alla stessa parete, si trova una cornice dorata che è stata eseguita nel 1703 dall’intagliatore bresciano Paolo Scalvini e dorata lo stesso anno da Felice Bonomelli. In origine era destinata a fungere da ancona per l’altare del SS. Crocifisso e a incorniciare il Crocifisso Miracoloso che ancora oggi si trova in chiesa sull’omonimo altare (nota a). La cornice è in legno intagliato e dorato ed è la più ricca e fantasiosa tra quelle conservate nella prepositurale. Essendo la più antica, è quella che risente maggiormente del gusto barocco. La parte plastica, scolpita e intagliata, è costituita da una sequenza molto movimentata di putti e cherubini che si rincorrono tra volute con decoro a “traliccio”(nota b). Attualmente la cornice contiene al suo interno un crocifisso di piccole dimensioni, quasi a ricordare la sua più antica funzione. Diversi documenti parlano di questa cornice. Quello denominato “Parrocchiale”, riferendosi al 1703, dice “La Comunità fece fare la cornice ad intaglio con diversi angeli ed indorata (che) serve col suo cristallo in occasione… ”. L’inventario del 1781 precisa quanto segue: “La sacra immagine poi del SS.mo Crocefisso viene guardata da una cornice in forma di croce con suoi cristalli, e riguardata da una tendina di ormesino cremice”. Più articolata, per quanto ormai certa, l’attribuzione della cornice a Paolo Scalvini. Il Gozzi non fa cenno ad attribuzioni di paternità, limitandosi a riferire la data e il luogo di esecuzione, 1703 a Brescia (nota c). I nomi dello Scalvini, definito ora “intagliatore in legno” e altrove “tagliapietre” e del doratore Bonomelli sono fatti, per la prima volta, da Rita Venturini, la quale riporta la trascrizione di alcuni documenti d’archivio (nota d). Da questi interessanti documenti si desume che l’accordo viene stipulato dalla Compagnia del SS. Sacramento con lo scultore in pietra Domenico Corbarelli, autore col padre Francesco della balaustra dell’altare del Crocifisso (nota e), che funge così da capo commessa, e che i pagamenti vengono effettuati materialmente da Carlo Antonio Bonenti (nota f). La conferma del nome dell’artefice e del fatto che la cornice ora si trova in Sagrestia viene anche da Renata Massa (nota g), ma nella nota relativa al testo non si dice da dove è stata desunta la notizia, né quando è avvenuto il trasferimento. Abbiamo di recente appreso che la collocazione in Sagrestia nuova è avvenuta negli novanta del Novecento, quando il Crocifisso è stato restaurato.
Note
[a] Ciò è confermato dalla presenza di appositi spazi per ospitare le estremità della croce, ricavati lungo i lati interni della cornice.[b] Due putti a tutto tondo appartenenti alla cornice sono andati perduti.[c] Carlo Gozzi, Effemeridi storiche patrie (a cura di G. Cobelli e M. Vignoli), Tomo I, Sometti, Mantova 2001, p. 126.[d] Rita Venturini, I colori del sacro. Tarsie di marmi e pietre dure negli altari dell’Alto Mantovano 1680-1750, Publi Paolini, Mantova 1997, p. 125-126, Doc. 10-11-12.[e] L’altare in marmo vero e proprio (1688-1689) è opera degli scultori Faustino e Stefano Carra, mentre i Corbarelli realizzano appunto la balaustra in marmo nel 1703 (Venturini, 1997, p. 61).[f] La Compagnia aveva ereditato da Antonio Francesco Alberti alcune proprietà immobiliari e fondiarie che vengono cedute al Bonenti il quale, in cambio, effettua una serie di pagamenti a carico della Compagnia stessa. La questione è riassunta in un documento inedito del 14 dicembre 1710, il “saldo de conti” tra la Compagnia del SS. Sacramento e Carlo Antonio Bonenti (CG. ASP, AP, Scalvini).[g] Massa, Il tesoro ritrovato. Reliquie e reliquiari dell’antica prevostura di Sant’Erasmo in Castel Goffredo, Pupli Paolini, Mantova 2002, p. 56, nota 15.