Gli arazzi: breve storia e aspetti tecnici
di Elena Cerra
Il termine arazzo s’incontra negli inventari e nella letteratura artistica fin dal XVI secolo per riferimento alla città di Arras nelle Fiandre, importante centro di produzione di tali opere.
Il termine rievoca oggi soprattutto i paramenti murali intessuti di monumentali dimensioni, ornati con scene narrative sacre o profane o con composizioni vegetali, zoologiche, araldiche, destinati ad essere appesi alle pareti di stanze o saloni o lungo le navate delle chiese [Figura 1].
Figura 1. Ignoto tessitore, A mon seul désir, dal ciclo “la dama e l’unicorno”, arazzo, Fiandre, fine xv secolo, Parigi, museo del medioevo.
Nella loro storia hanno assolto anche ad altre funzioni, assumendo variabili formati, come decori parietali, come componenti dell’arredo, come corredi ecclesiastici e perfino come componenti decorative del vestiario.
Ma che cos’è un arazzo?
Il termine indica innanzitutto un’opera tessile caratterizzata da una particolare e specifica struttura materiale, che la differenzia da qualsiasi altro tipo di prodotto intessuto.
Il suo periodo di maggior fortuna iniziò dalla seconda metà del XIV secolo per durare fino alla fine del XVIII secolo. In questi quattro secoli e mezzo gli arazzi, tessuti soprattutto nelle Fiandre e in Francia, ma anche in tutta Europa, divennero oggetti d’arte molto ambiti dagli acquirenti più facoltosi, sicuramente per la loro raffinata bellezza, come emblemi di status, ma anche per la loro praticità d’uso in quanto facilmente trasportabili e dispiegabili nelle più diverse situazioni, sia al chiuso sia all’aperto.
La fase più gloriosa si chiuse di fatto con la Rivoluzione francese che, da un lato, comportò la crisi e la chiusura definitiva di numerose manifatture, dall’altro coincise col manifestarsi di profondi mutamenti legati alla rivoluzione industriale. La meccanizzazione dell’industria tessile e l’affermarsi di uno stile di vita borghese urbano e la conseguente sostituzione del palazzo con l’appartamento di città portarono inevitabilmente all’impraticabilità di dispiegare grandiosi paramenti intessuti.
La realizzazione dell’opera è ricondotta essenzialmente a vari momenti creativi.
L’artista a cui veniva commissionato il modello, effettuava diversi disegni preparatori a matita o a penna, quindi realizzava il bozzetto a colori completo nei dettagli. Generalmente all’interno delle manifatture, alcuni pittori specializzati trasformavano il bozzetto in un cartone dipinto in grandezza naturale.
Nell’epoca d’oro della tessitura (dal XIV al XVI secolo) gli arazzieri furono in grado di operare una continua e rinnovata traduzione del modello pittorico, affinando le proprietà tecniche ed esaltandone le qualità estetiche.
La fase di realizzazione vera e propria ha come oggetto la tessitura, che si impone non solo come mezzo tecnico ma anche come strumento creativo autonomo.
Nel corso del XVIII secolo si assistette però ad un raggiungimento di esasperati vertici di virtuosismo tecnico, facendo sì che buona parte della produzione degli arazzi finisse per rappresentare poco più che semplici, seppur raffinatissime, copie tessili della pittura [Figure 2 e 3].
Questa privazione della componente creativa dell’arazziere, unita alle ragioni socio economiche già citate, sancì il rapido e progressivo declino delle manifatture.
Figura 2. Arazziere Nicolas Bataille, cartonista Jean de Bruges, La nuova Gerusalemme, dal ciclo “L’apocalisse”, arazzo, Parigi, fine XIV secolo, castello di Anger.
Figura 3. Giardino cinese, Beauvais, Manifattura reale, 1748-1750, Torino, Palazzo Reale.
La tecnica
La tecnica di tessitura degli arazzi si basa su un’operazione antichissima quale l’intreccio più semplice tra l’ordito (fili verticali) e la trama colorata (fili orizzontali): la tela.
Per fare questo l’arazziere disponeva di due tipologie di telaio, uno detto “ ad alto liccio” ed uno definito “ a basso liccio”.
In entrambi i casi, durante la tessitura, le figure apparivano distese in orizzontale, in posizione della trama [Figura 4]; ad arazzo finito l’immagine subiva una rotazione di novanta gradi.
Figura 4. Tessitura ad alto liccio: posizione delle figure durante la lavorazione (Encyclopédie di Diderot e d’Alembert,1771, pl. XIII, fig.1).
La scelta di utilizzare come base l’altezza dell’arazzo consentiva infatti di tessere pezzi anche molto larghi, per poter letteralmente rivestire interi ambienti.
Nel telaio ad alto liccio l’ordito (lasciato del suo colore grezzo naturale) era teso verticalmente su due cilindri di legno detti “subbi” sorretti da montanti, disposti parallelamente uno ai piedi del tessitore e l’altro sopra la sua testa [Figura 5].
Figura 5. Telaio ad alto liccio della manifattura dei Gobelins (Encyclopédie di Diderot e d’Alembert 1771, pl. IX, fig.1).
La sequenza dei fili era mantenuta equidistante da una verga dentellata. A questo punto gli orditi venivano divisi alternativamente da barre in modo che si avessero due piani di fili, quelli pari e quelli dispari. Il piano anteriore veniva collegato a cordicelle ad anello detti “licci”, a loro volta fissati ad un bastone detto “asta dei licci” che permettevano, attraverso una trazione manuale, di creare un varco in cui introdurre il fuso di legno su cui era arrotolata la trama colorata.
Una volta pronto il telaio il cartone veniva accostato agli orditi e con un pennino intinto d’inchiostro si procedeva a segnare su ogni singolo filo le tracce del disegno sottostante.
Il cartone vero e proprio era posto alle spalle del tessitore; la presenza di poche linee conduttrici della raffigurazione implicava maggiore abilità interpretativa dell’arazziere, il quale poteva però agevolmente controllare il procedere del lavoro passando davanti al telaio o sistemando in questa posizione dei grandi specchi. La costruzione dell’immagine era data dall’evoluzione dei filati colorati (trame) che si intersecano perpendicolarmente all’ordito; il tessuto realizzato, premuto e compattato con un pettine, veniva avvolto al cilindro inferiore mentre l’ordito veniva svolto verso il basso da quello superiore.
Anche il telaio a basso liccio [Figura 6] era costituito da una struttura di sostegno e da due cilindri paralleli, che però erano posti su di un piano orizzontale.
Figura 6. Telaio a basso liccio della manifattura dei Gobelins (Encycolpédie di Diderot e d’Alembert 1771, pl. XVIII).
L’ordito risultava quindi teso orizzontalmente. L’arazziere procede come nell’altro sistema, ma incombendo sopra l’ordito, come su un tavolo da lavoro.
La tessitura procedeva più rapida, sia perché il cartone veniva posto direttamente sotto l’ordito, sia perché la tensione dei licci era effettuata con l’aiuto di leve premute con i piedi.
Questo tipo di telaio però non permetteva un controllo efficace del tessuto realizzato e comportava il ribaltamento del modello dipinto.
I materiali
Per l’orditura veniva generalmente utilizzata la lana, qualche volta il lino e in alcune particolari produzioni la seta. Per la trama veniva usata principalmente la lana e la seta e, più raramente, il filato metallico (ovvero un filato costituito da un’anima di seta sulla quale era volta una sottilissima lamina d’argento o di argento dorato).
Per realizzare il modello proposto, gli arazzieri potevano attingere ad un repertorio cromatico che da pochi colori base, circa una ventina nei primi arazzi del XIII e XIV secolo, si è andato via via arricchendo raggiungendo nel corso del XVII secolo più di quattordicimila colori.
La qualità delle tinture era soggetta ad attento esame, dato che buona parte della riuscita del manufatto era legata alla stabilità dei coloranti utilizzati. Quest’arte era gelosamente custodita e tramandata oralmente come un vero e proprio segreto tecnologico.
I filati venivano tinti con sostanze naturali. Queste fornivano i colori primari nelle diverse sfumature: per esempio la robbia e la cocciniglia per i rossi, lo zafferano e la curcuma per i gialli e l’indaco e il guado per i blu [Figure 7 e 8].
Figura 7. Robbia dei tintori (rubia tinctorum), specie erbacea che ha costituito sin dall’antichità la principale fonte di colorazione rossa per le fibre tessili, le pelli e le pitture murali.
Figura 8. Indaco (indigofera tinctoria). Dalla fermentazione delle foglie di questo arbusto si ottiene il colorante blu-azzurro.
Dalla sapiente combinazione di due o più coloranti principali si ottenevano i colori secondari, i marroni e i neri.
La lana e la seta venivano trattate preliminarmente con sali metallici e questa “mordenzatura” permetteva di legare in modo stabile le fibre ai coloranti.
Una volta completata la tessitura, il rovescio dell’arazzo presentava le terminazione dei fili della tessitura [Figura 9]. Per protezione e rinforzo della struttura venivano cucite delle fasce di sostegno [Figura 10] e fodere in canapa o lino.
Figura 9. Particolare del rovescio di un arazzo che presenta le terminazioni dei fili impiegati durante la tessitura.
Figura 10. Particolare della fodera (in canapa o lino) cucita sul retro dell’arazzo, usata come protezione e rinforzo della struttura tessile.
Per poter essere esposto l’arazzo era munito di un ausilio alla sospensione: asole di tela spessa, cordelline o anelli metallici ancorati in vari punti della cimosa superiore.
La cimosa è una fascia tessuta generalmente con un filato scuro monocromo che percorre tutto il perimetro dell’arazzo. Non ha una funzione estetica, ma pratica: l’arazzo può essere manipolato e movimentato senza che si tocchi direttamente la parte figurata.
Nel corso del tempo si assistette ad una progressiva necessità di tutelare la qualità dei manufatti da parte delle manifatture più prestigiose. A garanzia della qualità dell’opera, nel 1528 venne introdotto l’obbligo di tessere il marchio della manifattura o dell’atelier, il monogramma dell’arazziere e del cartonista e spesso la combinazione dei due
I marchi erano generalmente costituiti da simboli grafici e lettere spesso assai complesse ed indecifrabili. [Figure 11 e 12].
Figura 11. monogramma sugli arazzi del ciclo “ la battaglia diPavia” ritenuto marchio di fabbrica della manifattura tessile di Jan e William Dermoyen sita a Bruxelles.
Figura 12. Monogramma dell’arazziere fiammingo Jan Rost, raffigurante un arrosto allo spiedo (elaborazione grafica).
La loro presenza è un prezioso elemento di identificazione della provenienza, della paternità e della datazione dell’opera.
Ottobre 2020
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