“Alceo Dossena vive” per i proprietari delle sue opere

di Vito Zani

Non si può che assistere con soddisfazione al progressivo affermarsi dell’interesse per la scultura nel campo degli studi di storia dell’arte medievale e moderna, in particolare del Rinascimento. Un riflesso del fenomeno, in ciò che oggi viene chiamato ‘mercato dei consumi culturali’, è chiaramente avvertibile anzitutto nel notevole afflusso di visitatori a grandi mostre dedicate solamente o in primo luogo alla scultura rinascimentale, anche itineranti per i principali musei di capitali e importanti città europee.
In questo quadro, la mostra Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura del Rinascimento, da poco chiusa al Mart di Rovereto, rappresenta un chiaro segno dei tempi, un sintomo di come anche il tema-satellite del falso scultoreo sia ormai pronto a trovare un nuovo spazio negli interessi di un pubblico non necessariamente specialistico (nota 1).
Delle mostre dedicate finora al più celebre falsario di sculture antiche (Alceo Dossena, Cremona, 1878 – Roma, 1937), quella di Rovereto è stata di gran lunga la più ricca di opere e ha avuto luogo dopo ben sessantasei anni dall’ultima. Le prime tre (Milano 1929, Roma 1931, New York 1933) si tennero invece con lui ancora in vita, sulla scia degli scandali internazionali legati alla scoperta di alcune sue contraffazioni acquisite pochi anni prima da musei e collezionisti tra i più importanti al mondo, principalmente americani, come capolavori di epoche remote, anche in scala monumentale, talvolta di celebri maestri italiani del Gotico e del Rinascimento (nota 2).
Fu così che il tema del falso scultoreo, tutt’altro che nuova nella storia artistica (nota 3) – celeberrimo l’esempio del Cupido dormiente del giovane Michelangelo -, irruppe grazie a Dossena nel cuore della più stretta attualità, seguito con interesse da cronache giornalistiche sempre pronte ad aggiornare il pubblico delle tante figuracce di direttori di musei e studiosi a vario titolo raggirati. Traumi a ripetizione, tutti nel giro di pochissimi anni, che trasformarono gli entusiasmi per capolavori riscoperti nel desolante disinganno di una truffa colossale e nel timore di ulteriori brutte sorprese sempre dietro l’angolo. Per effetto, aumentò di molto nel costume della critica quella percentuale di sospetto e diffidenza dietro cui, purtroppo, hanno finito non di rado per celarsi semplici difficoltà nella lettura stilistica di sculture tutt’altro che false, ma ugualmente inquadrabili a fatica entro il patrimonio di conoscenze vigente di volta in volta.

Solo da poco, grazie alla critica più accorta, si è cominciato a prendere coscienza di questo forte contraccolpo storiografico, del quale sono stati delineati in un primo abbozzo i caratteri e gli sviluppi (nota 4). Si è così puntualizzato come a seguito di qualche episodio europeo precedente al caso Dossena, persino l’enciclopedica Storia dell’Arte Italiana di Adolfo Venturi – ossia la formazione istituzionale di generazioni di storici dell’arte in Italia fino a buona parte della seconda metà del Novecento – avesse iniziato già dal 1908 a cassare come falsi diverse sculture autentiche di importanti maestri del Rinascimento toscano.
Quanto ancora sia cogente il problema degli originali falsificati dalla critica, nel piccolo della mia personale esperienza ebbi modo di comprenderlo già oltre un quarto di secolo fa, quando iniziai a dedicarmi alla ricerca attiva in un campo particolarmente insidioso come quello della scultura lombarda del Rinascimento, addentrandomi spesso e volentieri in territori poco o male esplorati (nota 5).
Mi resi conto allora di come certi verdetti di falsità si configurassero ormai alla stregua di uno standard critico, come una specie di risposta prestampata ad interrogativi posti da problemi filologici gravosi di per sé, o solo agli occhi di chi si trovasse ad affrontarli. Una maschera da conoscitore, che conferisce a chi la indossa quell’immagine di competenza superiore insita per natura nel giudizio critico di falsità, il cui primo presupposto – almeno in teoria – è una dimestichezza con gli originali tale da permettere l’esclusione di ogni possibile opzione di autenticità.

Il caso più emblematico in cui mi sia imbattuto è quello di una statua di Santa donata nel 1946 al County Museum di Los Angeles, sulla quale si erano pronunciati conoscitori come Valentiner e Middeldorf, riferendola a Giovanni Antonio Amadeo o al suo ambiente (nota 6). Nel 1991 il museo californiano decise di disfarsene, svendendola ad un’asta come falso di Alceo Dossena, a seguito di un giudizio espresso qualche anno prima da una studiosa pure di grandissimo merito, Janice Shell, che dava per certa la statua quale scadente contraffazione, con tutta probabilità proprio di Dossena (“an absolutely hideous object […], possibly executed by Alceo Dossena”).
Ebbi motivo di interessarmi a quel marmo una ventina d’anni or sono, studiando la scultura del Rinascimento a Brescia e più precisamente perché, sulla base di fotografie, vi riconobbi un autografo di Gasparo Cairano, come poi mi diede conferma l’osservazione diretta dell’originale (nota 7). Successivi approfondimenti, infine, condussero all’ipotesi che la statua avesse fatto parte del corredo figurativo di un importante altare perduto, citato dalle fonti bresciane (nota 8).
Dunque, scambiare un’opera autentica per un falso non è di per sé meno grave del contrario, può esserlo anzi molto di più, come si è potuto vedere. Tutto dipende dall’importanza dell’opera stessa, cioè dalle conseguenze in termini conoscitivi della sua presenza piuttosto che della sua assenza nel catalogo di un maestro, in uno scenario artistico o in una semplice sequenza stilistica.
Nel caso osservato, il misconoscimento dell’autenticità deve essere evidentemente dipeso da una lacuna cognitiva degli studi, che ai tempi non avevano ancora riconosciuto i caratteri peculiari di quella che potremmo definire variante bresciana dello stile scultoreo lombardo. Quanto invece all’attribuzione a Dossena, ingiustificabile sulla base dello stile e dei confronti, essa può trovare solo due altre spiegazioni, eventualmente correlate: una sorta di mitizzazione del personaggio (è lui l’autore perché è tipica delle sue opere la capacità di far cadere in errore rinomati conoscitori) e la sua fama di falsificatore di sculture anche nello stile del Rinascimento lombardo.
In entrambi i casi, che prescindono dal riconoscimento nell’opera di suoi personali caratteri formali, il giudizio di Shell sarà stato senza dubbio vagliato e approvato da diversi esperti, tanto del museo, quanto della casa d’aste.
Si trattò quindi di una specie di suggestione collettiva, azionata dalla semplice forza di un copione ancora vivo nella coscienza critica, che pare assuma una certa importanza nella vicenda storiografica post mortem di Alceo Dossena, almeno a giudicare dal risultato di avere indotto un museo a disfarsi di un’opera perché creduta falsa, pur nell’impossibilità di dimostrare che lo fosse. L’opera si trova già da tempo nella collezione Cavallini Sgarbi, esposta più volte dallo stesso Sgarbi, e sarebbe stato interessante rivederla sotto questa prospettiva alla mostra di Rovereto.
L’esposizione, ideata sempre da Sgarbi – anche presidente del museo che l’ha ospitata -, includeva fra l’altro una percentuale assai rilevante di opere della collezione intitolata alla sua famiglia.
Tuttavia, della vicenda non si fa cenno nemmeno nel catalogo, che pure contiene un saggio sui falsi di Dossena ispirati al Rinascimento lombardo, il cui autore ebbe già occasione in passato di pronunciarsi su questa statua (nota 9), propendendo per un anonimato che la declasserebbe alquanto, non solo in termini pecuniari.

Al di là del singolo caso, è proprio la questione in sé degli originali travisati per falsi a venir del tutto sottaciuta nel catalogo. In compenso, il saggio del curatore Del Bufalo, anch’egli prestatore di un buon numero di opere di Dossena – alcune fresche d’acquisto e particolarmente importanti -, si chiude osservando che “negli ultimi vent’anni, avendo le opere di Alceo Dossena raggiunto quotazioni interessanti, sono emerse sul mercato opere firmate con il suo nome e cognome ma eseguite non da lui” (nota 10).
Auspicando una filologia a tutela degli autentici Dossena e dei loro possessori, non tutti sembrano convenire sul fatto che le figure meglio titolate a giudicare criticamente le contraffazioni in stile antico, o presunte tali, siano coloro che dispongono di conoscenza più approfondita, ampia e dinamica possibile degli originali antichi, dei loro autori, dei loro stili, dei loro contesti e dei loro rapporti, proprio perché i falsi esistono solo ed esclusivamente in funzione degli originali, di cui non sono altro che surrogati, sempre e comunque.
Che possa esistere un approccio diverso, l’esposizione di Rovereto sembra volerlo affermare già dalla designazione di curatori non propriamente assidui con simili questioni, almeno a giudicare dalla loro produzione scientifica. Da qui sarà comprensibilmente dipesa la scelta di presentare le oltre centocinquanta opere senza schede critiche, mentre dal titolo della mostra ci si aspettava almeno quelle dei falsi in stile rinascimentale, di cui sarebbe stato interessante studiare quali modelli antichi venissero di volta in volta adottati e in che modo interpretati, anche attraverso quali medium, se calchi, fotografie o altro ancora.
Una scelta la cui opportunità è rivelata anche dal vistoso svarione dell’opera in collezione privata ferrarese, bene illustrata a p. 113, che il relativo saggio classifica di “stile neorinascimentale”, liberamente ispirata a un busto di Donatello conservato al Bargello (nota 11). Trattandosi di un calco, non l’unico conosciuto, da un noto busto in terracotta di Antonio del Pollaiolo, conservato nello stesso museo (nota 12), ci troviamo di fronte allo scambio di un’originale invenzione quattrocentesca con un’arbitraria deduzione ottocentesca da un’altra opera.

Nell’insieme si capiscono meglio i toni di derisione con cui, nel saggio iniziale del catalogo, firmato dall’ideatore della mostra, viene più volte nominato uno dei massimi storici e conoscitori di scultura rinascimentale (nota 13). Ravvivare il mito del grande ingannatore equivarrebbe quindi dimostrare come le sue sculture siano in grado ancor oggi di far fesso chi le studia e chi le compra scambiandole per autentiche, come sembra voler intendere il titolo stesso del saggio, “Alceo Dossena vive”.
Non a caso, tra i piatti forti di questo rilancio viene presentato nel catalogo il clamoroso smascheramento di un nuovo e notevolissimo falso di Alceo Dossena, provvisto dei classici requisiti di protocollo: aver ingannato almeno uno studioso di reputata esperienza, esser transitato per importanti circoli del mercato antiquario, esser stato infine acquistato come una meravigliosa scultura antica, in questo caso un capolavoro dell’estremo Quattrocento lombardo.
Si tratta di un medaglione in marmo (cm. 56 x 52) con San Giovanni Evangelista a mezza figura [Figura 1], al quale dedicai anni fa uno studio assai approfondito e corposo per conto di una storica galleria antiquaria di Milano – di cui è nota la tradizione famigliare di speciale predilezione per la scultura -, con la quale collaborarono studiosi del livello di Giovanni Previtali, Federico Zeri ed Enzo Carli, solo per citarne alcuni non più tra noi. Evito di citare tutti gli altri, compresi quelli che per la medesima galleria hanno in tempi più recenti condotto studi su opere poi approdate in musei tra i più importanti di mezzo mondo.

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Figura 1. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, collezione privata.

Nel catalogo di Rovereto, la presentazione del San Giovanni Evangelista è sdoppiata tra i saggi di Vittorio Sgarbi e di Marco Tanzi (nota 14), che in tutte le ricorrenze ne nominano il soggetto in San Giovanni Battista o “il Precursore”. In quello di Sgarbi non vi è menzione del manufatto, che tuttavia viene riprodotto a colori con la didascalia “Alceo Dossena, San Giovanni Battista, ubicazione ignota”. Dell’opera discute invece diffusamente Tanzi, motivandone il giudizio di falsità e l’attribuzione a Dossena, senza fornirne riproduzioni, ma solo diverse immagini di confronto (nota 15).
I due saggi sono privi di rimandi reciproci, cosicché chi consulta il catalogo non può sapere che il falso riprodotto senza testo da Sgarbi a p. 17 è quello discusso senza illustrazione da Tanzi alle pp. 92-93.
Nel testo si è pertanto guidati alla lettura di un’opera visivamente non identificabile dall’argomentare spedito e sicuro del saggista, che vi rileva “un’intima fascinazione dannunziana”, da cui risale alle coordinate cronologiche e ai prototipi figurativi della scultura. La quale “non è a mio avviso concepibile in anni precedenti la prima parigina, al Théâtre du Châtelet il 22 maggio del 1911, de Le martyre de Saint Sébastien, con musica di Claude Debussy e libretto di Gabriele d’Annunzio; un trionfo e uno scandalo, protagonista, nelle vesti del santo, una donna, una leggenda, la danzatrice russa Ida Rubinštejn. È lei il Battista: si vedano le foto di scena, celeberrime, si veda quell’altra, di un decennio successiva, della trasposizione cinematografica de La Nave, diretta da Gabriellino nel 1921. Ma Ida non è la sola fonte di ispirazione, c’è l’altra musa, Lyda Borelli, primadonna in teatro ma anche la prima femme fatale del cinema italiano, poi moglie del conte Vittorio Cini, che per d’Annunzio recita ne La figlia di Iorio”.
Il testo, corredato di non poche immagini delle dive citate, spiega anche perché il santo del rilievo sia stato messo a confronto per l’appunto con figure esclusivamente femminili.
Si apprende che solo l’immaginario erotico omo-bisessuale di primo Novecento può permettere di interpretare correttamente il San Giovanni Evangelista: “proprio «quel» San Giovanni Battista, quell’immagine androgina e perturbante del Precursore”, “il Battista, bellissimo e sommamente equivoco”, “questo Battista meravigliosamente torbido – bello come un Tadzio solo un po’ più grandicello, meno efebico e con una piega più consapevolmente ambigua nell’espressione, ancora pronto a far perdere la testa a tutti i von Aschenbach che trova lungo la sua strada”.
Cosa conferirebbe al San Giovanni l’evidenza di questa connotazione sessualmente equivoca, tanto enfatizzata nel saggio? Me lo domando perché non sono mai stato colpito da nulla di così conturbante in questa pur bellissima figura maschile, nella quale non vedo altro che un giovane dai lunghi capelli e con gli occhi sgranati, in preda alle visioni di un rapimento estatico [Figura 5]. In altre parole, un normale esempio iconografico di San Giovanni Evangelista, piuttosto ricercato sul piano compositivo ma pienamente conforme a convenzioni di rappresentazione che prevedono appunto simili sembianze e, spesso, simili attitudini mistiche.
Anche ravvisandovi un’aura di irresistibile sensualità, non va dimenticato che il San Giovanni Evangelista dell’Ultima Cena di Leonardo, effigie maschile tra le più equivoche ed effeminate dell’intera storia dell’arte, risale agli stessi anni e allo stesso contesto a cui era stato ricondotto il rilievo prima che ne venisse postulata la cronologia al primo Novecento.
Da dove potrà poi derivare l’accostamento tra il San Giovanni e l’adolescente Tadzio della Morte a Venezia (ispiratore degli inconfessabili impulsi omosessuali e pedofili del protagonista von Aschenbach), se non dall’immagine assunta dal personaggio nelle trasposizioni visive dell’opera letteraria, piuttosto che nelle fantasie di chi l’ha letta?
È infatti curioso come il Tadzio della celebre versione cinematografica di Luchino Visconti – dove è incarnato da Björn Andrésen, “il ragazzo più bello del mondo” [Figura 2] – presenti una somiglianza davvero molto forte con il nostro San Giovanni, solo un po’ più grandicello, anche se è da escludere che ciò possa dimostrarlo realizzato non prima del 1971, anno in cui uscì il film.

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Figura 2. Tadzio impersonato da Björn Andrésen nel film La Morte a Venezia di Luchino Visconti (1971).

Eppure il confronto risulterebbe anche più calzante di quello con le dive di primo Novecento, dalle quali sarebbe giunta conferma di quella “intima fascinazione dannunziana”, secondo l’assunto per cui “la fortuna delle opere di Gabriele d’Annunzio sul gusto figurativo dell’epoca è in questo caso la chiave che smaschera il gioco: la poetica del Vate che interferisce, magari solamente in via subliminale, sull’immaginario degli artisti, scultori, pittori e anche su quello di molti contraffattori sia di opere importanti che di manufatti minori, quasi artigianali, come le tavolette da soffitto quattrocentesche”.
Al riguardo l’autore segnala casi di opere di Dossena ove sembra in effetti presente un influsso di moderno gusto novecentesco, ma si tratta di sculture in stile contemporaneo, per la gran parte firmate (nota 16). Nei suoi falsi, viceversa, riesce ben difficile rilevare simili componenti, anche perché lo scultore stesso dovette ben guardarsi dall’imprimere indizi del proprio tempo in opere nate per apparire antiche, tanto meno, immagino, fisionomie che ricordassero quelle di attrici allora sulla cresta dell’onda. Sotto tale profilo, il San Giovanni Evangelista rappresenterebbe dunque un’eccezione alla regola, viste le somiglianze rilevate con la danzatrice russa, tali da far addirittura dire “è lei il Battista”.
Oltre che dalla lettura stilistica, la falsità del rilievo verrebbe confermata, secondo il saggista, anche da dati materiali quali “il suo marmo, la sua patina, persino la doratura dell’aureola del Battista” (nota 17).
Del marmo bisognerebbe specificare che è lo stesso di un incompleto ciclo di sculture quattrocentesche nella chiesa di S. Maurizio a Ponte in Valtellina [Figure 4, 6, 8, 10], al quale avevo ricondotto il pezzo (nota 18). Si tratta di una pietra cavata a Pomo, vicino a Tirano, usata solo localmente, che dunque non può offrire conferma di contraffazione. Lo stesso vale a mio avviso anche per la patina, in cui non trovo nulla di diverso da quella di un’infinità di autentici marmi antichi.
Quanto invece alla doratura dell’aureola, pare evidente che non sia originale [Figura 11]. Anche perché è impressa su una campitura lapidea dalla superficie irregolarmente scabra, preparatoria per una stesura che senz’altro non prevedeva né la foglia d’oro, né una finitura pittorica. Bensì uno strato in stucco o altro materiale plasmabile destinato a far spessore ed ‘aggrapparsi’ al fondo, come avviene appunto negli otto superstiti medaglioni con busti di Apostoli del ciclo valtellinese di cui sopra [Figure 4, 6] (così come nei coevi e analoghi con busti di Santi all’esterno della tribuna di S. Maria delle Grazie a Milano, o in quelli coi ritratti ducali sui portali delle sacrestie della Certosa di Pavia), dove la campitura è riempita da stucco nero che, nei punti in cui è lacunoso, lascia scoperto il fondo lapideo con la medesima lavorazione scabra.
Il San Giovanni condivide in tutto e per tutto le caratteristiche degli otto Apostoli superstiti di Ponte in Valtellina: il marmo non comune, le misure, il formato del medaglione non perfettamente tondo ma lievemente ovalizzato, la tecnica scultorea fino agli aspetti più reconditi [Figure 9-10] e addirittura le lavorazioni preliminari a finiture non più presenti nel pezzo erratico (nota 19).

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Figura 3. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, particolare, collezione privata.

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Figura 4. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Matteo (?), 1495-1498, Ponte in Valtellina, S. Maurizio.

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Figura 5. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, particolare, collezione privata.

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Figura 6. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Bartolomeo, 1495-1498, particolare, Ponte in Valtellina, S. Maurizio.

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Figura 7. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, particolare, collezione privata.

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Figura 8. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), capitello figurato, 1495-1498, particolare, Ponte in Valtellina, S. Maurizio.

Comunque lo si voglia interpretare, è un rapporto talmente stretto da non poter esser in alcun modo posto in dubbio: anche reputando il San Giovanni un falso, certamente esso non nacque come opera autonoma, bensì come contraffazione di un pezzo mancante proprio di quel ciclo (nota 20).
Non essendo noti altri casi in cui Dossena avrebbe realizzato elementi perduti di originarie serie scultoree, va da sé che la circostanza assumerebbe importanza unica anche per lo studio delle sue strategie operative. Tuttavia, il catalogo di Rovereto non va oltre la segnalazione che il nesso con le sculture valtellinesi era stato evidenziato, come a dire che non avrebbe molto a che fare con la sostanza figurativa dell’opera.
L’impressione è che si sia stabilito che questo rilievo, più che studiarlo, lo si debba spiare dal buco della serratura, usando come strumento d’indagine le foto di qualche sofisticata diva dello spettacolo, senza neppure accennare al confronto con quelli che sono i suoi imprescindibili termini di paragone materiale (nota 21). Un principio di sottrazione, che mi pare affine a quello della lettura pilotata di un’opera figurativa negata alla vista; lettura che trovo decisamente più orientata a una retorica in funzione persuasiva che non a una reale analisi conoscitiva dell’opera.
Il giudizio ricavato da un simile procedimento, a mio modo di vedere, non poteva che risultare sommario. Così anche la scelta di basarsi sul testo ridottissimo di una brochure illustrata per confutare la classificazione che era stata data a quest’opera, anche se era facile immaginare che, per la sua complessità, ci fosse alle spalle uno studio di tutt’altro spessore (che immagino sia stato recapitato al saggista qualche settimana dopo l’apertura della mostra). Tutto ciò riesce in parte a spiegare quanto interesse vi fosse a presentare ad ogni costo nel catalogo la bellissima scultura come opera di Alceo Dossena.
Per il resto, lo spiega la sua foto riprodotta senza commenti dall’ideatore della mostra, tra le prime pagine, non meno che la richiesta del curatore Del Bufalo presso la galleria milanese che ebbe in carico l’opera, per ottenerne un’immagine migliore di quelle rimediate fino a qualche tempo prima che il volume andasse in stampa.
Che risultati potrebbe sortire l’aggiunta di un così inatteso capolavoro al catalogo di Dossena? Uno dei più prevedibili, almeno per chi possiede sue opere – soprattutto se in quantità -, sarebbe una propizia ricaduta sulle quotazioni del maestro.

A mio avviso il rilievo non solo è autentico, ma è parte di un problema estremamente complesso, sul quale sono al lavoro da parecchi anni e di cui l’annosa questione delle sculture di Ponte in Valtellina non è altro che un capitolo. Altri principali e non meno annosi sono il paliotto dell’altare maggiore della Certosa di Pavia e il citato ciclo di busti istallati sulla tribuna bramantesca di S. Maria delle Grazie, ma diverse altre opere entrano in gioco. Tutte alquanto strane, pochissimo indagate e moltissimo incomprese, come se quel senso di spaesamento stilistico che inevitabilmente trasmettono impedisse di farne recepire le frequenti ed inattese vette qualitative.
Nell’aprile 2012, presso la sala Carthusiana della Certosa di Pavia, tenni una relazione sul paliotto, ove ne illustrai visivamente le sorprendenti citazioni dal pergamo di Luca della Robbia per S. Maria del Fiore a Firenze, oltre a quelle dal San Giovannino del Bargello e da altre opere di Antonio Rossellino. Che il paliotto sia di cultura toscana (come ebbe a confermarmi anni addietro Giancarlo Gentilini) si può comprendere ancor meglio dalla mirabile applicazione tecnica della diminuzione progressiva dei volumi verso il fondo, chiaramente derivata dalla linea principale dell’eredità di Donatello. È indubbiamente di cultura toscana anche qualche rilievo della serie di S. Maria delle Grazie, come ad esempio il meraviglioso e giovanile San Lorenzo, uno dei pochissimi sfuggiti al tremendo e non remoto scempio conservativo di quel ciclo. Anche il San Giovanni Evangelista, di cui si è qui discusso a lungo, è a mio avviso un’opera dalla dominante stilistica toscana, anch’essa ispirata, fra gli altri, a modelli di Antonio Rossellino.
Le lunghe ricerche condotte hanno portato a concludere che questo grande problema in seno alla scultura del ducato di Milano nell’estremo scorcio del Quattrocento ruoti intorno ad Alberto da Carrara e alla composita compagnia di maestri toscani e lombardi al suo seguito, in un momento in cui il gusto per l’arte toscana veniva coltivato e fortemente promosso dallo stesso duca (nota 22). Evito però di entrare in ulteriori dettagli, avendo da diversi mesi un libro in lavorazione su questo complicato argomento.

NOTE

[1] Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura del Rinascimento, catalogo della mostra (Rovereto, ott. 2021-febbr. 2022) a cura di D. Del Bufalo e M. Horak, Roma 2021.

[2] Si veda il saggio in catalogo di Roberta Ferrazza, Alceo Dossena e i falsi da museo. il mercato americano, lo scandalo e il ruolo di Elia Volpi, in Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura, cit., pp. 56-75.

[3] M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’arte italiana, vol. X, a cura di F. Zeri, Torino 1981, pp. 113-195.

[4] F. Caglioti, “Falsi” veri e “falsi” falsi nella scultura italiana del Rinascimento, in Il falso specchio della realtà, a cura di A. Ottani Cavina e M. Natale, Torino 2017, pp. 105-156, in particolare le pp. 129-144; vedi anche Id., Due false attribuzioni a Giovanni Bastianini falsario, ovvero due busti di Gregorio di Lorenzo, ex “Maestro delle Madonne di marmo”, in “Conosco un ottimo storico dell’arte”. Per Enrico Castelnuovo. Scritti di allievi e amici pisani, a cura di M.M. Donato e M. Ferretti, Pisa 2012, pp. 213-223.

[5] Appurando ad esempio che erano di Benedetto Briosco oltre quaranta figure di un altare del duomo di Milano, fin lì neglette agli studi, comprese alcune statuette in cui Rossana Bossaglia aveva ravvisato “palesi caratteri di falsi ottocenteschi”, mentre diverse altre, sempre a suo giudizio, apparivano “rifatte, forse direttamente sull’originale, in varie epoche, specialmente nel corso dell’Ottocento” (V. Zani, L’altare di Santa Caterina nel duomo di Milano e la maturità di Benedetto Briosco, in “Nuovi Studi”, 5 (1998), pp. 39-64).

[6] Sull’opera vedi V. Zani, Gasparo Cairano e la scultura monumentale del Rinascimento a Brescia (1489-1517 ca.), Roccafranca (Bs), 2010, p. 117, cat. 5, fig. 58.

[7] L’attribuzione fu proposta nel 2001 (V. Zani, Gasparo Coirano. Madonna col Bambino, in “Spunti per conversare” (Galleria Nella Longari di Milano), 5, dicembre, s.l. 2001, p. 31 nota 32), dopodiché la statua ricomparve nel 2006 a una mostra mantovana, ove risultava appartenente alla collezione Cavallini Sgarbi (V. Sgarbi, scheda, in La scultura al tempo di Andrea Mantegna tra classicismo e naturalismo, catalogo della mostra (Mantova, settembre 2006-gennaio 2007) a cura di V. Sgarbi, Milano 2006, pp. 160-161). Nell’occasione attribuita a “Giovanni Antonio Piatti (o Antonio Mantegazza)”, l’opera veniva presentata come inedita, senza menzione delle sue passate vicende critiche e commerciali, nemmeno di quelle espositive di decenni addietro.

[8] V. Zani, Un’ipotesi sulla pala d’altare rinascimentale della cappella Caprioli in S. Giorgio a Brescia (Antiqua, febbraio 2018) [Leggi].

[9] M.Tanzi, Il Rinascimento lombardo di Dossena, tra d’Annunzio e Farinacci, in Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura, cit., pp. 88-99. Per il parere dell’autore sulla statua, Id, Scultore lombardo (Bresciano?) tra Tamagnino e Coirano, 1500 circa. Tre Angeli reggicorona, in Arredi, Mobili e Dipinti Antichi provenienti dalla famiglia Antinori-Buturlin e altre proprietà private, Pandolfini casa d’aste, Firenze, asta 11-12 ottobre 2011, pp.252-253 lotto 453.

[10] D. Del Bufalo, Dossena artista e alchimista, in Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura, cit., p. 53.

[11] R. Magnani, Da Luca della Robbia ad Alceo Dossena attraverso i minori della terracotta e della ceramica, in Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura, cit., pp. 113-114.

[12] G. Amato, scheda in Antonio e Pietro del Pollaiolo. “Nell’argento e nell’oro, in pittura e nel bronzo…”, catalogo della mostra (Milano, nov. 2014-febbr. 2015) a cura di A. Di Lorenzo e A. Galli, Milano 2014, pp. 156-159, cat. 4.

[13] V. Sgarbi, Alceo Dossena vive, in Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura, cit., pp. 11-12.

[14] V. Sgarbi, Alceo Dossena vive,cit., p. 17, fig.10; Tanzi, Il Rinascimento lombardo di Dossena, cit., pp. 91-93.

[15] L’assenza è giustificata col fatto che l’opera è “in mano privata” (Tanzi, Il Rinascimento lombardo di Dossena, cit., p. 92), dal che si suppone sia stata la diversa dicitura di “ubicazione ignota” a permetterne la riproduzione tra le prime pagine dello stesso volume, nel citato saggio di Sgarbi. L’autore menziona peraltro una brochure illustrativa della scultura (Ibid, p. 98 nota 3) che ne aveva resa pubblica l’immagine già nel 2016 e che da anni è consultabile in rete. Forse non a caso, la fotografia pubblicata da Sgarbi è la stessa riprodotta nella suddetta brochure.

[16] Ibid., p. 92.

[17] Ibid., p. 93.

[18] Per l’unica riproduzione completa dei marmi figurati di questo gruppo, con un sunto della loro storia, della loro vicenda critica e qualche proposta, si rimanda a Un ciclo di marmi a Ponte in Valtellina (Antiqua, luglio 2015) [Leggi]. Si tratta di fotografie scattate una ventina d’anni fa, da ponteggi allestiti per la pulitura delle sculture, e risultano le uniche immagini frontali conosciute di queste opere, oltre a quelle realizzate nella stessa occasione prima degli interventi. Quelle postate ritraggono i pezzi ripuliti, con un effetto di leggero appiattimento dovuto al tipo di illuminazione adottata, che non permette di recepire in pieno la ricchezza di dettagli e le modulazioni del rilievo. In certi casi, sotto questo profilo, tornano molto più utili le immagini precedenti la pulitura, come quella qui pubblicata del presunto San Matteo [Figura 4] di cui è emblematico il confronto con quella postata nel 2015. Si nota anche come il riempimento delle pupille con stucco nero abbia contribuito non poco a togliere vivacità allo sguardo della figura, coprendo un incavo che quasi certamente doveva invece rimanere scoperto, con due sottosquadri circolari regolarissimi che sembrano infatti corrispondere all’iride e alla pupilla. Non è chiaro se l’erratico San Giovanni Evangelista sia privo di queste lavorazioni perché lo si volesse raffigurare con i bulbi oculari rigirati, oppure in seguito all’incompiutezza dell’impresa delle sculture di Ponte. È una forma analoga a quella che si rileva in un putto su uno capitello appartenente al medesimo lotto dei lavori, i cui caratteri somatici lo fanno quasi sembrare una versione infantile del nostro San Giovanni Evangelista [Figure 7-8]. La veste del santo presenta la stessa lavorazione superficiale a gradina degli Apostoli di Ponte [Figura 9], con cui è resa l’impressione del tessuto, e la bellissima figura di San Pietro ne offre l’esempio migliore e più uniforme dell’intero ciclo [Figura 10].

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Figura 9. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, particolare, collezione privata.

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Figura 10. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Pietro, 1495-1498, particolare, Ponte in Valtellina, S. Maurizio.

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Figura 11. Maestro del paliotto della Certosa di Pavia (Alberto Maffioli da Carrara?), San Giovanni Evangelista, 1495-1498, particolare, collezione privata.

[19] Il San Giovanni Evangelista presenta mancanze in qualche punta delle ciocche dei capelli, oltre ad alcune integrazioni di restauro: buona parte del naso, un piccolo brano del mento, lo spigolo frontale inferiore del braccio tronco, le dita della mano e una parte del libro. Sembra trattarsi di restauri antichi, apparentemente condotti utilizzando la stessa pietra. Può essere che le dita siano in realtà quelle originarie (in tal caso rilavorate), come si sospetta dal bordo irregolare con cui sono attaccate alla mano, che sembra essere quello di una frattura ricongiunta. Anche se si trattasse di una ricostruzione, è comunque difficile che le dita si presentassero in una posizione diversa dall’attuale, poiché le parti marmoree circostanti, per la gran parte, sembrano prive di manomissioni.

[20] Il fine commerciale dell’operazione induce a chiedersi come mai Dossena avesse simulato un elemento di quel ciclo assolutamente sconosciuto e non uno degli analoghi medaglioni di S. Maria delle Grazie a Milano (L. Giordano, La scultura, in Santa Maria delle Grazie in Milano, Milano 1983, pp. 96-97, figg. pp. 106, 108-109), la cui serie, ben più nota e numerosa, è ugualmente mancante di vari pezzi, oltre che realizzata nella comunissima pietra d’Angera, più leggera e molto più docile da lavorare rispetto all’ostico marmo saccaroide di Pomo, pieno di inclusioni e irregolarità. Simile ‘ritrovamento’ avrebbe suscitato clamore anche per le attribuzioni ragguardevoli (e immaginarie, a Caradosso, Agostino de Fonduls, Tommaso Cazzaniga etc.) vantate ai tempi dal ciclo della tribuna bramantesca, quando alcuni esemplari furono pubblicati in uno dei lussuosi volumi di F. Malaguzzi Valeri, La Corte di Lodovico il Moro (II. Bramante e Leonardo da Vinci, Milano 1915, pp. 194-196). Quale successo commerciale avrebbe potuto conseguire l’operazione è l’allora “principe degli antiquari”, il fiorentino Stefano Bardini, a farcelo capire. Di un esemplare del ciclo milanese egli possedeva infatti un calco, non più rintracciabile ma immortalato da una fotografia del suo archivio, dalla quale si è erroneamente desunto che si trattasse di una copia in marmo (F.M. Bacci, Stefano Bardini e il collezionismo delle «teste» all’antica, in Ritratti di imperatori e profili all’antica: scultura del Quattrocento nel Museo Stefano Bardini, a cura di A. Nesi, Firenze 2012, pp. 110-111, fig. 62; che fosse un calco pare provato sia dalle identiche scheggiature rilevabili in altri esemplari dello stesso calco, sia dal sottile anello metallico per il fissaggio a parete, tipico appunto dei calchi, affiorante in alto dal retro del medaglione; quasi certamente erano calchi anche quelli pubblicati da Malaguzzi Valeri nel libro or ora citato, a p. 196). Il rapporto tra il ciclo di S. Maria delle Grazie e quello di Ponte in Valtellina era stato per la prima volta ravvisato da Alfred Gotthold Meyer (Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei, II, Berlin 1900, pp. 221-222), cadendo poi nel dimenticatoio per un secolo e più – insieme agli Apostoli valtellinesi -, per essere infine autonomamente riscoperto da Silvia Papetti (I tondi con effigi di Apostoli nella parrocchiale di San Maurizio a Ponte in Valtellina, in “Bollettino della Società Storica Valtellinese”, 59 (2006), p. 145).

[21] Il caso mi pare analogo a quello di un rilievo lombardo di tardo Quattrocento (V. Zani, in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea. II, a cura di M.T. Fiorio, Milano 2013, pp. 53-55, cat. 495), classificato nel 2009 come assai probabile contraffazione otto o novecentesca, ispirata agli esempi di un originale e conosciuto ciclo antico, del quale doveva essere invece un elemento costituivo.

[22] Sulla figura di Alberto Maffioli da Carrara si rimanda agli studi di Alessandra Talignani (da ultimo: Alberto Maffioli, architetto e scultore di Carrara tra le cave e la pianura padana, in Nelle Terre del Marmo. Scultori e lapicidi da Nicola Pisano a Michelangelo, atti del convegno (Pietrasanta- Seravezza, dic. 2013), a cura di A. Galli e A. Bartelletti, Pisa 2018, pp.  137-163, con bibl. prec.), ricchi di novità per quanto riguarda soprattutto il percorso dell’artista prima del soggiorno lombardo, iniziato nel 1489 e chiusosi entro il 1499. Di questo scultore-impresario girovago (tra Toscana, Emilia, Lombardia, Liguria e Spagna), dall’identità stilistica non del tutto chiara e impegnato in commissioni di particolare importanza, sappiamo che fu uno stimato ritrattista e che beneficiò almeno per qualche tempo della personale fiducia di Ludovico il Moro. Talignani ha messo in luce come già il monumentale ciborio eucaristico del duomo di Parma, che precede l’approdo lombardo dell’artista, sia contrassegnato non solo da profonde discordanze esecutive, ma anche da una vera e propria forma di ibridazione culturale, rappresentata in questo caso da una replica dell’altare Piccolomini del duomo di Siena con un corredo di figure un po’ alla lombarda e un po’ alla toscana.

Le fotografie delle Figure 1, 3, 5, 7, 9, 11 sono dell’autore; quelle delle Figure 4, 6, 10 sono di Andrea Basci; quella della Figura 8 è di Silvia Papetti.

Aprile 2022

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