Giovanna Perini Folesani, Il soggiorno romano di Peter Scheemakers (1728-1730), 130 pagine formato 17 x 24, Olschki, Firenze 2021, euro 28,00.
Confesso di non aver mai sentito finora nominare Peter Scheemakers (1691-1781), scultore fiammingo di religione cattolica attivo a Londra.
La sua opera più famosa è il monumento a Shakespeare (1740), eseguito su disegno di William Kent (1685-1748) e collocato all’interno dell’Abbazia di Westminster, così famoso, almeno in Gran Bretagna, da essere riprodotto in una serie di oggetti come quelli in ceramica dello Staffordshire che mostro qui di seguito (tutti databili tra XVIII e XIX secolo), anche se non hanno nulla a che vedere con il libro di cui mi appresto a parlare.
Il libro tratta di un taccuino di disegni eseguiti da Peter Scheemakers durante il suo soggiorno romano tra il 1728 e il 1728, raffiguranti copie di sculture sia classiche sia barocche.
Le premesse non sono incoraggianti: uno scultore poco noto, di non particolare talento (viene definito un “pollo”, tuttalpiù una cicogna, quando si confronta con l’aquila Algardi) che copia una serie di monumenti romani durante un breve soggiorno.
Ebbene, il libro è avvincente.
L’autrice Giovanna Perini Folesani scrive benissimo, dimostrando come si possa dire molto e bene avendo a disposizione un argomento “minimo”, mentre si può essere noiosi in modo micidiale trattando argomenti di interesse e respiro maggiore.
Non sappiamo quanti dei contenuti espressi siano mutuati da precedenti lavori di Ingrid Roscoe sul medesimo artista, ma sicuramente il lavoro di analisi della Perini Folesani è cospicuo, stando all’imponente bibliografia citata nelle note e a una serie di considerazioni sicuramente originali.
La scrittura, dicevamo, è decisamente brillante e, di tanto in tanto, inaspettatamente, infarcita di giochi di parole (tràdito-tradìto) e sottili doppi sensi (il paradosso di uno scultore “senza spessore”), ma gli spunti offerti sono tanti: la Roma vista con gli occhi di un visitatore “inglese”, il collezionismo d’opera d’arte archeologiche, la filosofia del restauro delle stesse, il difficile rapporto tra antico e moderno e altro.
Sono due le cose che mi hanno maggiormente colpito.
La prima è che gli artisti stranieri giungevano a Roma con un proprio back ground fatto di cultura autoctona, magari intrisa di un classicismo predigerito, per cui è come se cercassero delle conferme alle proprie idee, pur aprendosi alle nuove suggestioni.
La seconda, esportabile pari pari nel campo delle arti decorative, è come un elemento stilistico possa attecchire così fortemente in un ambito preciso da diventarne peculiare, pur derivando da altri contesti. Viene fatto l’esempio della piramide, talvolta a punta tronca o smussata, che compare in numerosi monumenti funerari settecenteschi britannici, al punto da essere considerata tipica di quelle latitudini, mentre la derivazione è italiana e in auge già in epoca barocca (Andrea Bardelli).