La scagliola intarsiata

di Micaela Mander

L’arte della scagliola ha origini remote e una storia recente: origini remote poiché fin dall’antichità è uso corrente decorare superfici a imitazione del marmo; la storia è invece recente perché l’utilizzo della polvere di gesso mescolata a fingere il marmo, abbinato ad una tecnica ad intarsio, è documentato solo a partire dal XVI secolo.
Si tratta di una tecnica senz’altro più economica rispetto al commesso di pietre dure, anch’esso in voga a partire dal XVI secolo, con la creazione nel 1588 da parte del granduca Ferdinando I de’ Medici della Manifattura del commesso fiorentino, poi nota come Opificio delle pietre dure. Con ciò non si vuole considerare la scagliola una tecnica artisticamente di livello inferiore; anzi, gli scagliolisti che nominerò nel corso di questo breve excursus raggiungono un notevole livello di perfezione, senza contare la varietà di soluzioni compositive e tecniche proposte, tali da meritare il fiorire di studi specialistici che caratterizzano il Novecento (nota 1), e una maggiore attenzione da parte del grande pubblico.

Il successo della scagliola è determinato – oltre che dall’economicità – dalla velocità dei tempi di esecuzione rispetto a quelli richiesti da analoghi manufatti in pietre dure, dando luogo ad una diffusione a vasto raggio di opere, in primis paliotti d’altare, dovute ad una committenza quasi esclusivamente religiosa per quanto riguarda il territorio italiano, ed opere prevalentemente destinate alle corti nei territori tedeschi.
Qui la tecnica viene peraltro documentata per la prima volta nel 1591 a Salisburgo: Hans Kerschpaumer è chiamato a realizzare piani di tavolo e altri oggetti raffiguranti vedute, uccelli e fiori per il conte Ferdinando del Tirolo, lavori non pervenuti fino a noi, ma presumibilmente realizzati in scagliola, essendo il Kerschpaumer un abile artigiano dello stucco, antecedente diretto dell’impasto utilizzato per la tecnica in esame.
La prima opera in scagliola conservatasi, e la più affascinante per impegno e ricchezza, è la Reiche Kapelle della Residenza di Monaco, ambiente totalmente rivestito in scagliola a disegni geometrici con inserti di vedute e vasi di fiori, iniziata nel 1607 da Blasius Pfeiffer (notizie dal 1587 al 1622), noto anche con il nome latino di Fistulator, capostipite di una famiglia di stuccatori-scagliolisti, che vede impegnate anche le donne, mogli e madri, vera e propria dinastia protetta dal duca Massimiliano, tra i cui membri ricordo Wilhelm, figlio di Blasius, ovvero colui che porta a termine la citata cappella nel 1632.
Un recente studio di Alfonso Garuti (nota 2), oltre a porre l’accento sullo stretto legame tra successo della scagliola, gusto barocco dell’illusione e sensibilità controriformista, propone una lettura di contemporaneità tra  l'”invenzione” tedesca della scagliola e le prime opere di Guido Fassi (1584-1649), architetto ed ingegnere carpigiano che per primo applica questa tecnica alla creazione di cornici ed ancone architettoniche per altare. Garuti gli attribuisce infatti la lapide di Cristoforo Priori conservata nella Cattedrale di Carpi, datata 1611, sostenendo che il lasso di tempo intercorso tra il 1607, data d’inizio della Reiche Kapelle, e il 1611 è troppo breve per ipotizzare una diretta conoscenza di modelli tedeschi. La posizione di Graziano Manni (nota 3) in proposito è più morbida (notevole è infatti la mobilità di maestranze, modelli e repertori), e lo studioso nota come certe soluzioni del Fistulator vengano riprese in ambito carpigiano a decenni di distanza, e non dal Fassi, che si muove esclusivamente nell’ambito architettonico. Sono infatti i suoi allievi e collaboratori, Carlo Francesco Gibertoni (notizie nel 1614, 1619 e 1646) ed Annibale Griffoni (1618-1679), ad utilizzare il piano in scagliola come base per dipingere immagini prima e come imitazione del commesso poi, dando vita alla prima scuola italiana di scagliola, quella carpigiana appunto.
È Giovanni Gavignani (1632-1680) a codificare lo schema dei paliotti (larghe fasce che incorniciano la composizione, a sua volta divisa in tre parti dalle candelabre verticali), schema che caratterizza la scuola carpigiana nella sua prima fase; inoltre l’artista, fedele ad un senso rinascimentale della misura, si serve del bianco e nero, a fingere il legno scuro su cui venivano applicate carte e stampe, così come si usava nei precedenti paliotti mobili, che a loro volta potevano anche essere di tela ricamata [FIGURA 1].

Gavignani Giovanni, Paliotto, chiesa della Madonna di Lourdes, Reggilo (Re) (La scagliola carpigiana

Figura 1 Gavignani Giovanni, Paliotto, chiesa della Madonna di Lourdes, Reggilo (Re) (La scagliola carpigiana … op. cit., p.81).

Il Gavignani, infatti, “gioca” con il suo pubblico, fingendo un bordo superiore a merletto e riprendendo il tratteggio delle ombreggiature tipico delle incisioni su rame; per non parlare dei ragni che si calano dai vasi di fiori: una sorta di firma dell’artista. Con il suo allievo Giovan Marco Barzelli (1637-1693) il colore entra a pieno titolo nella storia della scagliola, indagato d’ora in poi in tutte le sue possibilità espressive, grazie anche all’abbandono dello schema tripartito a favore di cornici floreali continue a svolgimento simmetrico, con un solo piccolo campo centrale, all’interno del quale trova collocazione la figura del santo a cui viene dedicato l’altare. Cito inoltre Carlo Gibertoni (1635-notizie fino al 1696), scagliolista identificato dal Manni, il cui catalogo e il cui ruolo si vanno ridefinendo dopo la precedente confusione con il più anziano Carlo Francesco, perché è il primo carpigiano a lavorare in Toscana, esportando in quella regione la tecnica della scagliola, lasciandone una testimonianza preziosa nella decorazione dell’oratorio di S. Tommaso d’Aquino a Firenze, che a sua volta prende a modello la Cappella Medicea, in pietre dure.

È con Marco Mazelli (1640-1713), Giovanni Massa (1660-1741) e Giovanni Pozzuoli (1646-1734) che la scuola carpigiana tocca i vertici della sua produzione per qualità e quantità, dando vita a vere e proprie organizzazioni imprenditoriali, che esportano modelli e prodotti nel territorio circostante, tramite trasferimenti degli artisti stessi o circolazione di cartoni, copiati con varianti. Lo schema del paliotto viene rinnovato: ad esempio il Mazelli adotta una finta grata marmorea al cui interno colloca un’esuberante decorazione di fiori ed uccelli [FIGURA 2], mentre Massa crea delle prospettive con rovine classicheggianti e pavimentazione a scacchiera entro cui inserire la figurazione sacra . Questi tre artisti codificano un particolare “tono” cromatico delle opere, tono tenue che diventa una caratteristica della scuola carpigiana, ma che trova una eccezione notevole nelle creazioni esuberanti e molto accese di Giovanni Leoni (1639-inizi del Settecento).

Marzelli Marco, Paliotto, parrocchiale di Motta di Cavezzo (Mo)

Figura 2 Marzelli Marco, Paliotto, parrocchiale di Motta di Cavezzo (Mo) (Manni, op. cit., p. 97).

Con i Leoni entriamo nel vivo del problema della diffusione della scagliola nel resto d’Italia, in particolare in area lombarda: Battista Leoni (1614 – 1698) commise un omicidio nel 1654, in seguito al quale fu costretto ad allontanarsi da Carpi, città d’origine, portando con sé i tre figli maschi, Ludovico (1637 – 1727), Giovanni (1639 – ?) e Francesco (1641 – ?). Assieme al secondogenito Giovanni, Battista firmò nel 1655 i paliotti della chiesa teatina di S. Antonio abate a Milano (nota 4), che nuova linfa portano alla storia della tecnica, per l’estro fantastico con cui la scagliola viene impiegata a imitare tarsie marmoree, vasi di fiori, uccelli, farfalle, animali reali e fantastici, in un affollamento della superficie davvero al limite delle possibilità offerte dalla tecnica.
Le scagliole dei figli coprono una vasta area geografica a cavallo del Po: se Ludovico si stabilì a Cremona, tenendo allievi (nota 5), e dando vita a una bottega da cui fuoriuscirono altri scagliolisti attivi nel piacentino e nel parmense (nota 6), Giovanni ebbe vita più movimentata, tra Milano, dove lasciò almeno altre due opere (nota 7), Modena, dove operò per Ignazio d’Este, e committenze addirittura internazionali, visto che l’olandese Nicola Witsen a Genova gli richiese un piano di tavolo, ora conservato presso il Riksmuseum di Amsterdam. In direzione nord si trasferì anche il fratello minore Francesco, di cui allo stato attuale degli studi (nota 8) si conoscono solo due opere, già in provincia di Vercelli.
Il primo lavoro noto di Ludovico, peraltro, si trova nella chiesa teatina di Parma (nota 9), e conferma questa linea emiliano-lombarda attraverso cui la scagliola sembra risalire la penisola [FIGURA 3].

Ludovico Leoni, Paliotto, chiesa S. Cristina a Parma

Figura 3 Ludovico Leoni, Paliotto, chiesa S. Cristina a Parma (E. Rusch, Scagliole intarsiate Silvana, Cinisello B., Mi 2007, p25).

Con i Leoni ci troviamo dunque nella seconda metà del Seicento in una vasta area della pianura padana; pochi anni dopo la prima opera nota di Battista e Giovanni si assiste nel nord della Lombardia al fiorire della scuola intelvese: del 1664 è infatti il primo paliotto firmato e datato dal sacerdote Carlo Belleni (1612-1683), artefice operante con questa tecnica a Gottro sul Lago Ceresio, nei pressi della Val d’Intelvi, paliotto che presenta evidenti analogie, già segnalate dalla Spalla (nota 10), con le scagliole di S. Antonio Abate a Milano, in particolare nel modo di trattare il bordo.
La valle d’Intelvi, del resto, aveva dato i natali a numerose maestranze che si erano in passato distinte in varie tecniche di decorazioni, in particolare nello stucco; logico è perciò che la tradizione continui seguendo la novità della scagliola, che, come abbiamo visto, incontra non solo il favore di committenti locali, ma pure di importanti confraternite religiose, quali i Padri Teatini di Milano. Cito la famiglia Solari, Pietro (1687-1762) innanzitutto, attivo per i Domenicani nel Monferrato, e nel Ticinese e nel Varesotto, ed il fratello Giacomo (1680-?), raffinato interprete di cineserie che incontrano il favore della committenza di metà Settecento.
Siamo ormai giunti al XVIII secolo: la scagliola è praticata anche nell’Italia del Sud (nota 11), anche grazie alla committenza dei Borboni, e nel resto dell’Europa, dove si diffondono quadri in scagliola, raffiguranti fiori, insetti e curiosità naturali. L’Illuminismo, inoltre, contribuisce alla diffusione di manuali per la lavorazione del finto marmo e della scagliola intarsiata: si pensi, prima fra tutte, alla descrizione rigorosa della procedura nelle pagine dell’Encyclopédié di Diderot e D’Alembert.
Il neoclassicismo, però, predilige la produzione di paliotti in scagliola plasticata a scapito della scagliola intarsiata: in ambito emiliano citiamo la produzione di Pietro Battagliola (1682-1742). È l’inizio del declino di questa tecnica, sorpassata prima dallo stucco, tornato in auge per decorare a rilievo palazzi e chiese, poi dai moderni procedimenti industriali di produzione seriale.
Nel corso dell’800 vi sono parziali riprese nell’ambito dei revival che caratterizzano l’arte del secolo; mentre, per quanto riguarda il 900, possiamo citare il Parlamento di Vienna, il distrutto Reichstag di Berlino, la Stazione Centrale di Milano, opere dove però la scagliola ritorna ad essere, come all’inizio, semplice finto marmo.

NOTE

[1] Per una bibliografia sull’argomento rimando allo studio di Graziano Manni, I maestri della scagliola in Emilia Romagna e Marche, Modena 1997, che riporta titoli non solo riferiti all’ambito carpigiano.

[2] A. Garuti, La scagliola: arte dell’artificio o della meraviglia, in AAVV, La scagliola carpigiana e l’illusione barocca, Modena 1990, pp. 61-108.

[3] Manni, op. cit., pp. 16-17.

[4] Cfr. M. Mander, I paliotti in scagliola della chiesa di S. Antonio a Milano: proposte per uno studio iconografico, in DecArt, 4, Firenze 2005, pp. 40-49.

[5] Jacobus Proffit, artista francese operante a Milano in S. Fedele e nella Cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo, per il quale già il Manni ipotizza un alunnato presso Ludovico.

[6] Mi riferisco allo scagliolista noto come GBF, autore di una scagliola attualmente conservata all’interno del Duomo di Parma: cfr. M. Mander, Un paliotto in scagliola nella chiesa di S. Francesco a Lodi: proposte di revisione del catalogo di Ludovico Leoni, in “Archivio storico lodigiano”, Lodi 2005, pp. 325 – 333.

[7] Oltre al paliotto, pubblicato dal Manni, in S. Vittore, segnalo il recente ritrovamento di due piani tavolo provenienti dalla Villa Mirabello dei conti Durini a Monza: cfr. M. Mander, Le scagliole della collezione Durini: due inediti di Giovanni Leoni, in Rassegna di Studi e Notizie del Castello Sforzesco, Milano 2007 (in corso di stampa).

[8] C. Caramellino, Presenze di maestri della scagliola in Piemonte, in Imitazione e bellezza. Opere tecniche dell’arredo sacro in scagliola, atti della giornata seminariale, Ghiffa (Vb), 2004, pp. 59-65.

[9] Cfr. M. Mander, I paliotti in scagliola intarsiata di Ludovico Leoni in Santa Cristina a Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi, LVI 2004, Parma 2005, pp. 719 – 724.

[10] F. Spalla, voce Scagliola, in “Dizionario della Chiesa Ambrosiana”, vol. V, Milano 1992, pp. 3240-3245.

[11] Vorrei ricordare, tra le altre, la Certosa di Padula, nel Napoletano, per i preziosi inserti di madreperla nell’intarsio a scagliola.

14 Febbraio 2008 © riproduzione riservata