Mobili “pel de rava”: addenda al catalogo
di Elisabetta Ballarini

Il barocchetto milanese ha espresso nelle arti applicate autentiche gemme. Una di queste, nel campo degli arredi, riguarda come noto quella che prende il nome dal singolare motivo del cosiddetto “pel de rava”, almeno fino a quando non sarà possibile attribuirne una definitiva e comprovata paternità.
A tal proposito un puntuale catalogo era già stato proposto da Andrea Bardelli in un articolo pubblicato in questo sito [Leggi , al quale si rimanda anche per la bibliografia generale.
L’occasione di un viaggio in Svezia della scrivente dà oggi modo di aggiungere a quel corpus due nuovi esemplari: d’altronde non sorprende affatto che anche in regioni remote l’ebanisteria lombarda, ancorchè di matrice germanica, sia stata e sia ancora tenuta in gran conto, ben prima dei successi internazionali del periodo neoclassico.
Si tratta di un cassettone e di un comodino conservati presso il Museo Hallwyl di Stoccolma [Figure 1 e 2].

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Figura 1. Cassettone “pel de rava”, Lombardia, terzo quarto del XVIII secolo, Stoccolma, Museo Hallwyl.

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Figura 2. Comodino pel de rava, Lombardia, terzo quarto del XVIII secolo, Stoccolma, Museo Hallwyl.

Come siano giunti a queste latitudini è presto spiegato. L’attuale museo altro non era che la casa di Walter von Hallwyl (1839-1921), discendente da un’antica famiglia svizzera del Canton Argovio, e della moglie Wilhelmina Kempe, unica figlia del più grande mercante di legname svedese, il facoltoso collezionista d’arte Wilhelm Kempe. Durante un viaggio in Italia nel 1890 i due coniugi, a loro volta assidui collezionisti, avevano acquistato i due arredi da un antiquario di Bellagio, sul lago di Como.
Ma osserviamo nel dettaglio i due mobili.
Il cassettone presenta la consueta foggia a urna con fronte e fianchi a doppia mossa (ovvero un movimento a onda sia verticale sia orizzontale), grembiale sagomato e piedini a ricciolo.
Il primo dei quattro cassetti, meno profondo degli altri, occupa la fascia sottopiano scandita da una pronunciata gola e sottolineata da una tipica linea di demarcazione.
Lo scafo in abete è interamente lastronato in pregiate essenze di noce, radica di noce ferrarese, palissandro, bois de rose e bosso che disegnano motivi a cartiglio sul fronte, i lati e il piano.
Nella fattispecie, su un fondo di radica dalle venature spiccatamente contrastate e specularmente giustapposte, è intarsiato un ampio nastro a riserva di bois de rose profilato da una coppia di cornicette rocaille richiamanti ora elementi vegetali ora lingue fiammeggianti, che si intersecano e si sfogliano fino ad aprirsi in elementi centrali a ventaglio, sempre in perfetta rispondenza.
Il virtuosismo chiaroscurale, ottenuto con sapienti tocchi di china e ombreggiature (su altri mobili molto spesso ormai purtroppo perdute), imprime a questi ornati notevoli effetti tridimensionali che dovevano di certo impressionare l’occhio dell’osservatore settecentesco – e nondimeno quello contemporaneo – tanto da essere facilmente riconducibili a una specifica bottega.
La stessa da cui uscì quella che a buon ragione può essere considerata la migliore produzione di questo rinomato decoro.
Esigenze di praticità hanno purtroppo richiesto l’apposizione di maniglie e bocchette che, oltre a non corrispondere al gusto del periodo, ne guastano non poco l’armonia.
L’ignoto Maestro doveva avere una qualche avversione per la ferramenta tanto da ridurla ai minimi termini – le sole chiavi – in modo tale da lasciar esprimere il disegno senza alcun disturbo visivo.
Su qualche raro mobile della serie sono presenti bocchette intagliate di legno, perfettamente incastonate nell’ornato, ma in generale la ferramenta che si trova su questa tipologia di arredi è stata aggiunta in tempi posteriori.
Come il cassettone, anche il comodino non sfugge agli stessi canoni di grazia e proporzioni per forma e decoro.
Le alte gambe sinuose reggono un corpo con antina sovrastato da un piano a vassoio. Ritroviamo in questo pezzo l’impronta del Maestro nella leggerezza, nella sintassi della composizione, negli stacchi cromatici, nell’ossessione per la simmetria (persino il piccolo pomello è curiosamente centrato rispetto allo sportello).
Come accennato poc’anzi, i due mobili appartengono probabilmente ad un’unica bottega, quella a cui si ispirarono anche altri esecutori, in momenti successivi e con esiti meno pregevoli.
La mano dello stesso artefice ha qui raggiunto una maturità e una sicurezza tali da consentire scioltezza d’esecuzione e standardizzazione di ornato.
Viene tuttavia da chiedersi se dietro a questi manufatti potesse esserci un architetto, un regista che ne guidasse e coordinasse l’esecuzione.
E’ ragionevole immaginarlo.
Arredi di tal fatta dovevano inserirsi in contesti totalmente organizzati, dove lo status del committente esigeva un’omogeneità di decorazione che dall’architettura si riverberasse negli affreschi, negli stucchi, fino al più piccolo dettaglio: e l’arredo, come evidente, è altro che piccolo dettaglio, è architettura d’interni.
Si veda in tal senso una caminiera [Figura 3 e 3 bis], apparsa sul mercato per la casa d’aste Sotheby’s nel 2008, che presenta un intaglio esattamente in linea con la serie dei “pel de rava”, e che presumibilmente era stata concepita per ambienti simili.

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Figura 3. Caminiera “pel de rava”, Lombardia, terzo quarto del XVIII secolo, Sotheby’s Milano 11 dicembre 2008, lotto n. 72.

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Figura 3 bis. Intaglio pel de rava(dettaglio della cimasa della caminiera di Figura 3).

Ma ritornando ai nostri mobili, è interessante rilevare – per concludere – come questo ingegnoso Maestro sia stato capace di smarcarsi dai ripetitivi decori rilevati delle cornicette ebanizzate – che pur dilagano nel torno di anni in cui egli è attivo, il terzo quarto del Settecento – per traghettare con i suoi intarsi l’ebanisteria milanese verso un nuovo capitolo, spianando la strada alla nuova maniera e all’altro grande Maestro che seguirà di lì a poco: Giuseppe Maggiolini.