Alessandra Zamperini, Stucchi. Capolavori sconosciuti nella storia dell’arte, Sassu, Schio (Vi) 2012, 352 pagine formato 28 x 33, euro 89,00.
Verrebbe da dire che si tratta di un libro fotografico corredato da un testo, ma non è così.
Le foto sono a dir poco spettacolari per qualità e formato, ma anche il testo, alla fine, risulta convincente.
È un testo di carattere divulgativo che non ha grosse pretese di scientificità, quanto piuttosto di raccontare la storia dello stucco dall’antichità all’Ottocento. Non si sarebbe potuto fare diversamente affrontando un argomento così vasto senza particolari delimitazioni di spazio e di tempo: dagli Egizi al Liberty.
Non disperiamoci dunque se nel testo mancano i rimandi alle figure (che del resto non sono numerate), se non tutte le opere di cui si parla sono illustrate e se alcune opere sono semplicemente citate o trattate in modo superficiale. In molti casi l’immagine affianca il testo al quale si riferisce, quella di soffermarsi solo su alcune opere emblematiche è una scelta tanto deliberata quanto inevitabile e la mancanza di approfondimento è compensata dai rimandi a una bibliografia piuttosto ricca.
Vorrei tornare sulle immagini, sia quelle d’insieme che di dettaglio, che in molti casi consentono di godere le opere raffigurate meglio che dal vero, anche perché alcuni stucchi sono ubicati in posizioni impossibili. Questa considerazione appare in sintonia con il merito principale di questo volume che è quello di farci scoprire un patrimonio artistico di cui si ignora l’esistenza, talvolta perché non se ne percepisce la sostanza, scambiando lo stucco per pietra o altro, oppure perché inserito in contesti dove le opere di pittura e di scultura rubano la scena.
A parte i costi editoriali dell’operazione che non sono indifferenti, viene da chiedersi se non sia questo il modo giusto di fare divulgazione nel campo dell’arte: immagini che consentano di “vedere” le cose e un testo che ne parli in modo scorrevole, chiaro e accattivante, lasciando ad altri contesti più specifici, di studio e di ricerca (a favore dei quali ci siamo più volte spesi da questo pulpito), il gusto di rovinarsi (ohimè) la vista sulle note a piè di pagina e su foto, magari, in bianco e nero e in formato ridotto.