Edoardo Villata, Tristezza della resurrezione. Bramantino negli anni di Ludovico il Moro, Edizioni Ennerre, Milano 2012, 192 pagine, formato 24 x 17, euro 80,00.

Apparso in libreria quando la mostra milanese del Bramantino stava per chiudere i battenti, il libro di Villata non nasce a margine dell’evento espositivo, che per alcuni versi invece precede, raccogliendo i materiali del corso universitario tenuto dall’autore alla Cattolica di Milano nell’anno accademico 2011-2012, dedicato a questo artista e a una rilettura del suo percorso, prevalentemente nella fase quattrocentesca.
Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca.-1530) venne riscoperto nella sua grandezza solo a partire dagli studi critici del Novecento, che ne hanno appurato l’importanza cruciale nel contesto lombardo dei decenni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, soprattutto come pittore, ma anche come architetto.
Chiamato dalla sua fama ad operare perfino alla corte papale di Giulio II, tra il 1508 e il 1509 eseguì in una delle Stanze Vaticane alcuni affreschi poco dopo soppiantati dai cicli di Raffaello, non certo perché poco apprezzati (tutt’altro, almeno a detta del Vasari che raccoglieva il ricordo di “alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita”), ma perché inevitabilmente soverchiati dal nuovo verbo classicista di una pittura italiana in vorticosa evoluzione.
Le ricerche d’archivio dell’ultimo secolo hanno notevolmente arricchito il patrimonio di conoscenze sulla biografia del grande maestro lombardo, lasciando tuttavia il suo percorso artistico ancora disseminato di incognite, dovute in primo luogo, ma non solo, alla penuria di date certe per gran parte delle sue non molte opere giunte fino a noi.
E’ acquisizione relativamente recente che nel 1480 l’adolescente Bramantino veniva assunto a Milano come apprendista nella bottega dell’orafo Francesco Caseri (Villata propone come possibile opera dei due un piccolo dittico metallico a smalto conservato al museo milanese Poldi Pezzoli), mentre rimangono ancora oggetto di ipotesi le vicende del suo passaggio alla pittura, che nel giro di appena un quinquennio lo portò a realizzare alcune opere di dimensioni relativamente contenute, eppure tanto pregiate quanto poco convenzionali, come l’Adorazione su tavola ora all’Ambrosiana di Milano, su cui la critica converge nel ravvisare un forte influsso di cultura ferrarese-bolognese, e nell’ipotizzare un tirocinio pittorico dell’artista presso Bernardino Butinone. Oscure rimangono anche le precise circostanze di una sua vicinanza a Bramante, che gli valse già in vita il soprannome di Bramantino.
Il libro di Villata inizia proprio dal nodo nevralgico Bramante-Bramantino, e passa al vaglio le opere pittoriche attribuite al primo dalla dominante tradizione critica, ponendo anche in questione l’effettiva consistenza storica della figura di Bramante pittore attraverso un riesame delle fonti, tra le quali l’autore recupera due testimonianze di Benvenuto Cellini, ove Bramante è definito “mediocre pittore” e “pittoraccio di poco credito”.
La verifica sui dipinti porta Villata a dubitare fortemente che spetti a Bramante, se non in minima parte, l’esecuzione del celeberrimo ciclo degli Uomini d’arme e dell’affresco con Eraclito e Democrito, ora a Brera, provenienti da casa Panigarola e commissionati da Gaspare Visconti nei tardi anni ’80 del Quattrocento. Nel supporre Bramante quasi esclusivamente in veste di progettista e Bramantino quale principale autore materiale di queste pitture, che ebbero un’eccezionale incidenza sul seguito delle arti in Lombardia, Villata porta ad esiti estremi una questione aperta anni or sono da Giovanni Romano, che coinvolge anche un’altra celebre opera tradizionalmente riferita a Bramante come la tavola, pure essa a Brera, con il Cristo alla colonna proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.
Al problema di tale dicotomia rimanda non incidentalmente la stessa immagine sulla copertina del libro: il bellissimo Cristo risorto del museo Tyssen-Bornemisza di Madrid, unanimemente riconosciuto da ormai oltre un secolo (grazie alle intuizioni e al pionieristico lavoro di Wilhelm Suida) come uno dei capolavori emblematici del Bramantino, non a caso ricordato nel 1586 come opera di Bramante, proprio mentre nasceva in Lombardia il mito di Bramante pittore. Nelle allucinate parvenze oscure e sfavillanti che il dolore assume in quest’opera – “tutto fuorché gioiosa”, come avrebbe invece imposto il soggetto -, la figura di Cristo suggerisce a Villata le parole del grande poeta ungherese Endre Aby (“… non ricordo molte cose del mondo in cui ho vissuto, ma mi accorgo con tristezza che ora sono risorto …”), in una poesia del 1910 intitolata appunto Tristezza della resurrezione, cui lo studioso rende omaggio anche nel titolo del suo libro.
E’ un gesto proiettivo che coglie in pieno la sintonia tra un senso di smarrimento e di inquietudine propriamente novecentesco, in un’Europa ormai avviata alla follia autodistruttiva delle guerre mondiali, e un artista del passato la cui riscoperta attraversò non a caso i tempi di quell’inimmaginabile orrore, mentre l’arte stessa varcava confini sempre più lontani da una normativa accademica che, nata proprio ai tempi del Bramantino, non poteva certo includere nel Pantheon della propria tradizione un soggetto così fuori dai ranghi figurativi.
Il libro di Villata restituisce infatti la realtà di un artista alla continua ricerca di soluzioni inedite e dense di risvolti semantici, che non diede mai nulla per scontato, né tanto meno aderì alla facile moda di tanti colleghi lombardi, per i quali essere moderni significava tentare più o meno maldestramente di imitare Leonardo, pure ammirato dal Bramantino con grande interesse, soprattutto per quanto riguarda lo studio dei lumi.
Tra i risultati più o meno coevi alla fondamentale esperienza ‘bramantesca’ degli affreschi di casa Panigarola, Villata propone per il Bramantino l’attribuzione del progetto di alcuni pannelli figurati a intarsio ligneo del coro dei monaci alla Certosa di Pavia, realizzato in due fasi da Bartolomeo de Polli (dal 1489) e Pantaleone de Marchi (dal 1492).
Una volta impadronitosi della monumentalità degli Uomini d’arme, il Bramantino ne trasfigurò ben presto l’enfatizzato rapporto figura-spazio nell’iperbolica rivisitazione prospettica dell’Argo affrescato nella Sala del tesoro del Castello Sforzesco di Milano, opera di probabile commissione ducale, databile intorno al 1490, sovraccarica di evocazioni figurative dell’antichità romana.
Risale a questa fase di elaborazione formale, secondo Villata, anche l’affresco col Noli me tangere, strappato dagli interni della chiesa francescana milanese di Santa Maria del Giardino e oggi esposto al Castello Sforzesco, che lo studioso mantiene entro la metà dell’ultimo decennio del secolo.
Alla medesima congiuntura, comunque entro la fine del Quattrocento, sono riportate anche le Muse affrescate nel Castello di Voghera, riemerse solo nel 1996 e subito riconosciute da Maria Teresa Binaghi come autografe del Bramantino, per le quali è oggi prevalentemente accreditata una cronologia agli inizi del nuovo secolo. La proposta di Villata, affine a quella di Alessandro Ballarin, è esposta nel libro con dovizia di argomenti non solo stilistici, ma considerando anche tutti gli altri dati (come i passaggi proprietà del castello e gli stemmi abbinati ai riquadri figurati), già interpretati a sostegno di una datazione più tarda e di una diversa committenza.
In un periodo compreso tra il 1495 e il 1498, entro il quale non risultano tracce documentarie del Bramantino in Lombardia (né altrove), Villata suppone un soggiorno romano dell’artista, illustrando i buoni motivi per i quali lo si potrebbe identificare nell’anonimo “Prospettivo Melanese depintore”, autore del libretto Antiquarie prospetiche romane, stampato a Roma tra il 1495 e il 1498.
Sul presupposto di questa esperienza romana, si spiegherebbe la maturazione in senso classico delle opere collocate dallo studioso al rientro lombardo del Bramantino, come la Crocifissione di Brera e il San Giovanni Evangelista della collezione Borromeo, ormai allo scadere del secolo, e anche del periodo di attività dell’artista su cui si focalizza il libro.
Un libro certamente indispensabile non solo a chi voglia conoscere di questo artista anche una prospettiva di lettura alternativa a quella proposta dalla mostra monografica milanese, il cui catalogo viene spesso citato e discusso in queste pagine. L’estrema difficoltà del soggetto trattato, cui si è qui fatto cenno nelle righe introduttive, ha infatti imposto a Villata un metodo d’indagine estremamente serrato sul confronto sincronico tra il Bramantino e i colleghi lombardi, che porta il libro decisamente al di là della dimensione più strettamente monografica, rendendolo un testo di primaria importanza per lo studio della pittura dell’ultimo ventennio del Quattrocento in Lombardia (con vari affondi nel secolo seguente).
Vito Zani


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