Un ciclo di marmi a Ponte in Valtellina
di Vito Zani
Soltanto l’immagine di questi otto medaglioni in marmo con busti di Apostoli, murati nel presbiterio della chiesa di San Maurizio a Ponte in Valtellina, può rendere in piena evidenza l’eccezionalità di un episodio assai poco frequentato dagli studi sulla scultura lombarda del Rinascimento, in parte ancora sconosciuto sul semplice piano visivo. Basti dire che di questo ciclo, noto alla letteratura dal tardo Ottocento e collocato in chiesa ad un’altezza poco accessibile agli sguardi, sono stati pubblicati a tutt’oggi appena quattro esemplari, una quindicina d’anni fa (nota 1).
Ai visitatori di Antiqua è così riservato il privilegio di vedere riprodotta per la prima volta la serie completa di questi stravaganti ed eccezionali manufatti, tanto lontani da qualsiasi pietra di paragone, quanto più sfuggenti ed enigmatici per il fatto che il loro profilo stilistico non collima a sufficienza con quello dei maestri documentati nella più ampia impresa che vide la loro realizzazione, cioè la costruzione del presbiterio della chiesa, avvenuta tra il 1495 e il 1500.
Va da sé che la restituzione finalmente integrale delle immagini, più che suscitare il piacere della vista, intende innanzitutto porre a una lacuna storiografica quel rimedio che costituisce l’unico autentico presupposto di un’auspicabile riscoperta di queste opere. In omaggio alla loro singolare bellezza, le righe che seguono hanno il solo scopo di promuoverne la conoscenza e l’attenzione, fornendo anche una sommaria rassegna storico-critica e un accenno di proposta attributiva, frutto di una più estesa e dettagliata ricerca d’imminente pubblicazione.
Chi ha presente le forme della scultura lombarda dell’epoca, troverà senz’altro in questa curiosa galleria valtellinese un parentado alquanto strano, qua e là anche un po’ scanzonato, dei duri e irreprensibili personaggi usciti fin lì dall’immaginazione dei vari Amadeo, Mantegazza e Piatti, ma anche di quelli più sdolcinati e composti che le nuove leve di Briosco e Tamagnino andavano imponendo.
Tra questi maestri e i loro seguaci, nessuno mai rappresentò una testa fra le nuvole come quella del probabile San Matteo, né un tenero e sorridente vagabondo come il pellegrino San Giacomo, né un rovello di fede e disperazione come il San Filippo, che sembra anzi voler recitare il controcanto alla tradizione dell’espressionismo lombardo [Figure 1, 2 e 3]. Questa levatura interpretativa riesce ad emergere ancor più netta laddove, nel San Pietro, viene adottato il modello standardizzato del vegliardo con una cascata di riccioli intorno alla tondeggiante testa calva [Figura 4].
Figure 1 e 2. San Matteo (?), San Giacomo, marmo, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio.
Figure 3 e 4. San Filippo, San Pietro, marmo, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio.
Il risultato, anche stavolta, è quello di un vero ritratto interiore (particolari come la bocca sdentata e la mano stretta sulle chiavi, travisabili come divagazioni di scrittura o autocompiacimenti tecnici, sono in realtà brani di una biografia vivente) ed è soprattutto da osservare che quel preciso modulo figurativo, più spesso usato per le immagini di San Giuseppe, trova nel San Pietro di Ponte la versione più originale, di gran lunga insuperata sul piano qualitativo, in tutta la scultura lombarda del Quattrocento. Altri quattro Apostoli completano la serie [Figure 5, 6, 7 e 8].
Figure 5 e 6. San Bartolomeo, San Mattia, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio.
Figure 7 e 8. San Paolo, San Simone, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio.
Viene naturale chiedersi quali conseguenze avrebbero potuto produrre simili capolavori sullo scenario lombardo, non solo sulla scultura, se invece che a Ponte in Valtellina fossero stati a Milano o a Pavia. Vale quindi la pena di accennare alle circostanze storiche del caso e a come la critica abbia affrontato questa clamorosa eccezione alle regole del modello centro-periferia.
L’appalto per la ricostruzione del presbiterio della chiesa medievale di San Maurizio a Ponte in Valtellina era stato assegnato nel settembre 1495 ai soci Giovanni Antonio Amadeo e Giacomo Del Maino, che abbandonarono il cantiere poco più di un anno e mezzo dopo, presumibilmente in uno stato di estrema arretratezza e senza avergli dedicato un impegno serio e continuativo.
La commissione per la ripresa e la conclusione dei lavori fu così affidata nel giugno 1498 a Tommaso Rodari, che si impegnava a fare risiedere a Ponte il fratello minore Jacopo “ad laborandum in marmore figuras et alia necessaria”. Una lapide nel presbiterio informa che l’impresa fu portata a compimento nell’anno 1500, ma l’aspetto di quella parte della chiesa venne fortemente alterato dalla decorazione pittorica apportata in tardo Settecento, che verosimilmente comportò anche l’eliminazione di partiture scultoree minori e una risistemazione del ciclo dei medaglioni con gli Apostoli, ai tempi forse comprendente ancora l’intera serie di dodici figure (nota 2).
All’apparato scultoreo posto in opera a fine Quattrocento appartengono anche il portale di accesso alla sacrestia, con stipiti rilevati a candelabre, e due coppie di grandi capitelli figurati, una rivolta verso l’abside [Figure 9 e 10] e l’altra verso la navata [Figure 11 e 12], le cui campate sono scandite da sei piccoli capitelli pensili, privi di figurazioni. Ad eccezione del portale, tutte queste sculture sono allineate a notevole altezza, lungo il cornicione sovrapposto agli imponenti pilastri della struttura muraria.
Figure 9 e 10. Capitelli, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio, prospetto verso l’abside.
Figure 11 e 12. Capitelli, Ponte in Valtellina, chiesa di San Maurizio, presbiterio, prospetto verso la navata.
La scoperta del contratto con Tommaso Rodari inaugurò in tardo Ottocento la vicenda critica di questi marmi, che solo un secolo dopo poté arricchirsi della notizia, recuperata dagli archivi, del precedente coinvolgimento di Amadeo e Del Maino nell’impresa di Ponte (nota 3).
Ciò spiega come mai l’attribuzione a Jacopo Rodari, nominato in quel contratto “ad laborandum in marmore figuras”, sia stata di gran lunga prevalente negli studi.
La speciale menzione riservata a queste opere nell’anno 1900 da Alfred Gotthold Meyer, che per primo ne recepì la notevole qualità, giudicandole il punto di partenza per selezionare lo stile di Jacopo Rodari all’interno dell’ampio corpus rodariano, stilisticamente dominato dal fratello maggiore Tommaso, rappresenta senz’altro il pronunciamento di merito più autorevole sul piano storiografico (nota 4). Benché trascurato dalla critica seguente, esso muoveva dalla constatazione di quel medesimo elemento di distinzione stilistica rispetto alle consuetudini dei Rodari, ravvisato poi a partire dal tardo Novecento da alcuni studiosi, che ne hanno fornito interpretazioni discordanti.
Una ha inteso le sculture di Ponte come un episodio anomalo dell’impresa rodariana, l’unico in cui la personalità di Jacopo ebbe modo di esprimersi liberamente, o comunque senza la troppo ingombrante presenza del fratello Tommaso (nota 5). Un’altra, separando i quattro capitelli dai medaglioni, ha ricondotto i primi (vedi ancora figure 9-12) alla fase rodariana del cantiere e i secondi (vedi ancora figure 1-8) alla precedente, con un’attribuzione ad Amadeo e collaboratori (nota 6). Un’altra ancora, infine, facendo riferimento al contratto con Tommaso Rodari, ha avanzato l’ipotesi che l’autore dei medaglioni sia un ignoto collaboratore di Jacopo all’impresa di Ponte (nota 7).
Passando al vaglio le tre proposte, l’ultima trova smentita nello stesso contratto da cui è stata dedotta (nota 8), mentre la prima comporta una giustificazione puramente teorica e inverificabile alla mancanza di puntuali riscontri per i medaglioni di Ponte nella produzione dei Rodari, pure contrassegnata da accenti bizzari (nota 9), in cui appare talora avvertibile qualche richiamo all’episodio valtellinese.
Della restante proposta, prima ancora che le attribuzioni, è il caso di discutere le valutazioni stilistiche in base alle quali sono stati stabiliti accorpamenti e distinzioni, che non paiono tener conto del netto scompenso di qualità e di stile che separa irrimediabilmente le due coppie di capitelli, tanto nella composizione generale, quanto nelle singole figurazioni.
I due rivolti alla navata (vedi ancora figure 11 e 12) si presentano infatti come semplici parallelepipedi ai cui angoli sono addossate figure di angioletti senza grazia e in pose ineleganti, con l’interposto campo banalmente occupato da un cammeo di sommaria fattura. Al contrario, i due capitelli rivolti all’abside (vedi ancora figure 9 e 10) mostrano una concezione alquanto più felice, colta e ricercata, sia nella sintassi compositiva, sia nelle meravigliose figure degli angioletti, modellate con una delicatezza e a una sensibilità alla forma decisamente affini a quelle dei medaglioni con gli Apostoli.
Se nei due capitelli più deboli pare chiaro lo stentato proposito, presumibilmente da parte dei Rodari, di imitare gli angioletti dell’altra coppia, si deve concludere che questi ultimi e i medaglioni dovettero vedere il preminente intervento progettuale e almeno parzialmente esecutivo di un altro maestro, di levatura ben superiore. Maestro che, come verrà meglio esposto in una prossima occasione, può essere identificato in uno degli autori del paliotto dell’altare maggiore della Certosa di Pavia, un’opera purtroppo non documentata, ma di chiara concezione toscana e verosimilmente di poco anteriore ai medaglioni di Ponte. Poiché questo maestro si fa riconoscere anche nelle migliori parti narrative del lavabo della stessa Certosa, commissionato nel 1489 ad Alberto Maffioli da Carrara, potrà dunque trattarsi di un suo valido collaboratore lombardo, se non dello stesso Alberto (nota 10).
NOTE
[1] I medaglioni, di formato leggermente ovalizzato, misurano mediamente quasi 60 centimetri in altezza e poco più di 50 in larghezza. La prima menzione del ciclo risulta contenuta nella Guida alla Valtellina ed alle sue acque minerali, Sondrio 1884, p. 240; la riproduzione dei quattro esemplari si deve ad A. Rovetta, L’architettura in Valtellina dall’Età sforzesca al pieno Cinquecento, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioevo e il primo Cinquecento, a cura di S. Coppa, Sondrio 2000, pp. 101-102. Al ciclo è stato poi dedicato un articolo monografico senza immagini né rimandi a quelle già pubblicate (S. Papetti, I tondi con effigi di Apostoli nella parrocchiale di San Maurizio a Ponte in Valtellina, in “Bollettino della Società Storica Valtellinese”, 59, 2006, pp. 137-146).
[2] Sulla storia della chiesa vedi A. Corbellini, La chiesa di San Maurizio a Ponte in Valtellina. Storia, arte e culto dal Trecento al Cinquecento, in “Archivio Storico della Diocesi di Como”, X, 1999, pp. 221-241. Il contratto del 1495 con Amadeo e Del Maino, mai rinvenuto, è citato in un reclamo rivolto ai due nel marzo 1498, un anno dopo il loro definitivo abbandono del cantiere (trascrizione in Giovanni Antonio Amadeo. Documents / I documenti, a cura di R.V. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Como 1989, pp. 271-273 doc. 537). Il contratto del 1498 con Tommaso Rodari è trascritto in A. Corbellini, Il contratto di Tomaso e Giacomo Rodari per il presbiterio della chiesa di San Maurizio di Ponte, in “Bollettino della Società Storica Valtelliese”, 51, 1998, pp. 107-112.
[3] Il contratto con Tommaso Rodari veniva menzionato per la prima volta nel 1884, nella Guida alla Valtellina, cit., p. 240. L’implicazione di Amadeo e Del Maino è nota dal 1989 (Giovanni Antonio Amadeo. Documents, cit., pp. 271-273 doc. 537).
[4] A.G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei, II, Berlin 1900, pp. 221-222.
[5] G. Galletti, L’architettura, in G. Galletti, G. Mulazzani, Il Palazzo Besta di Teglio. Una dimora rinascimentale in Valtellina, Sondrio 1983, pp. 16-18; Rovetta, L’architettura in Valtellina, cit., p. 106; V. Zani, Tommaso Rodari. Busto virile paludato, in Una scultura di Tommaso Rodari, a cura di C. Naldi, Lugano 2013, pp. 16, 20 nota 11.
[6] Papetti, I tondi con effigi di Apostoli, cit., pp. 142-146.
[7] L’ipotesi sulla paternità dei medaglioni è resa in forma interrogativa: “che spettino a uno o più di quei «magistri» espressamente citati nel contratto di cui lo scultore-architetto e il fratello si potevano avvalere?” (G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi, Il Rinascimento lombardo (visto da Rancate), in Il Rinascimento nelle terre ticinesi da Bramantino a Bernardino Luini, a cura di G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi, Milano 2010, p. 32).
[8] Il contratto disponeva infatti che i citati “magistri” fossero impegnati esclusivamente nel “picando seu squadrando lapides marmoreos”, poiché il “laborandum in marmore figuras” era riservato esclusivamente a Jacopo Rodari.
[9] Sui quali si erano già soffermati Meyer (Oberitalienische Frührenaissance, cit., pp. 193-214) e A. Venturi (Storia dell’arte italiana, vol. VI, Milano 1908, p. 926).
[10] Sul paliotto e sulla lunetta del lavabo di rimanda a R. Bossaglia (La scultura, in M.G. Albertini Ottolenghi, R. Bossaglia, F.R. Pesenti, La Certosa di Pavia, Milano 1968, pp. 58-59, 68, 77 nota 57, figg. 346, 356), che individuava il rapporto tra le parti indicate. Il contratto per il lavabo è trascritto da C. Morscheck, Relief sculpture for the facade of the Certosa di Pavia 1473-1499, New York-London 1978, pp. 290-291 doc. 169. Sull’artista sono indispensabili i recenti contributi di A. Talignani, Alberto Maffioli tra la Toscana e l’Emilia: aggiunte sull’attività di un maestro carrarese del Quattrocento, in “Aurea Parma”, XCVI, I, 2012, pp. 63-86; Ead., Alberto Maffioli, scultore di Carrara a Parma: prime considerazioni sul tabernacolo eucaristico quattrocentesco della cattedrale di Parma e le sue statue, in “Archivio Storico per le province parmensi”, 4 s., 64, 2012 (2013), pp. 551-563.
Le fotografie delle Figure 1-8 sono di Andrea Basci; quelle delle Figure 9-12 sono di Federico Pollini.
Prima pubblicazione: Antiqua.mi, luglio 2015
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