Un inedito di Pietro Piffetti? Ipotesi di studio
di Cristina Corsi
Ideato nel rispetto della consuetudine, questo inginocchiatoio [Figura 1] riflette la struttura del tipico comò romano della metà del Settecento quasi ad imitare il movimento di volumi, caro al primo barocco architettonico, dal quale trae ispirazione e al quale rende omaggio attraverso l’utilizzo delle molteplici incorniciature ebanizzate.
Figura 1. Pietro Piffetti (qui. attr.), inginocchiatoio, 1730 circa, collezione privata (foto di G. Majno, Milano).
A tal riguardo ricordiamo i due comò ben noti agli studi, pubblicati da Alvar Gonzalez Palacios, uno laccato e decorato a chinoiserie, l’altro “alla fiamminga”, la cui foggia non si allontana molto da quella che connota il nostro inginocchiatoio (nota 1).
La straordinarietà dell’inginocchiatoio consiste nella magnificenza della decorazione a tarsia, ottenuta con l’utilizzo di diverse varietà di essenze e piccole incrostazioni in avorio e metallo, che ne rivestono l’intera superficie, disegnando un soggetto a Natura Morta:
-sul piano, un rigoglioso ornato floreale, vivacizzato dalla presenza di uccelli, farfalle, e carnose volute di foglie di acanto,
-sul fronte dei cassetti, una teoria di girali di acanto,
-sulla pedana un mascherone grottesco, sormontato da un canestro colmo di fiori [Figura 2],
-sui fianchi un vaso poggiato sul consueto supporto con ricco bouquet [Figura 3].
Figura 2. Dettaglio di Figura 1 (foto di G. Majno, Milano).
Figura 2. Dettaglio di Figura 1 (foto di G. Majno, Milano).
E’ proprio a Roma che la nostra indagine porta ad avanzare una timida ipotesi di provenienza dell’arredo preso in esame.
Dalla fine del Cinquecento numerosi artisti mossero dalle Fiandre verso Roma, richiamati dal clima cosmopolita, bacino di accoglienza delle più svariate culture e tendenze.
In seguito, con la riconquista del suo predominio, durante il periodo della controriforma, la chiesa cattolica, attraverso la grande stagione barocca, celebrava il suo trionfo e la città Eterna diventava con le sue ricche committenze la capitale culturale d’Europa. Artisti provenienti da ogni dove, si incontravano scambiandosi stimoli ed esperienze; per i francesi divenne addirittura tappa obbligata, quando fu fondata, a partire dal 1660, l’Accademia di Francia, dove fecero confluire le incisioni dei loro decorativisti.
Per quanto concerne la tipologia di tarsia, di cui ci stiamo occupando, come suggerisce Alvar Gonzalez Palacios (nota 2) non era consueta a Roma. Semplici composizioni floreali o asciutti girali erano i motivi che con maggior frequenza completavano gli arredi di ambito romano, più vicini al gusto di un Jan van Mekeren (nota 3) intarsiatore olandese, che non all’esuberanza barocca delle tarsie di Boulle.
Bisognerà aspettare infatti il 1730, anno in cui Pierre Daneau (nota 4), intarsiatore di origine francese, firma due tavoli per la famiglia Barberini [Figure 4 e 5] i cui piani proporranno l’ornato a fiorami “alla olandese”, con la presenza di un mazzo di carte [Figura 6] e stemma della famiglia [Figura7] rese a trompe l’oeil.
Figure 4, 5, 6 e 7. Pierre Daneau, coppia di tavoli, 1730 circa (Alvar Gonzalez Palacios, op. cit., p.71).
A distanza dunque di anni venne proposta una versione settecentesca della tarsia floreale per una prestigiosa committenza, a dimostrazione che ancora a quella data era considerata di grande attualità.
I due tavoli riflettono, con ogni evidenza, il gusto di Charles Boulle che Daneau deve aver conosciuto nella sua città natale.
Figlio di un ebanista con bottega a Parigi, Daneau, giunge a Roma dopo aver ultimato la sua formazione probabilmente presso un importante centro, voglia essere Firenze o Parigi, esponente e portavoce di quella corrente di gusto di respiro internazionale.
Proprio intorno agli anni Trenta è documentata la presenza nell’Urbe anche di Pietro Piffetti (1701-1777) che diverrà in seguito prima ebanista della corte sabauda, dove vive con il fratello.
Da un carteggio tra Carlo Vincenzo Ferreo Marchese d’ Ormea, primo ministro piemontese e Ignazio Giuseppe Conte di Gros, ministro del Re di Sardegna, si evince che il giovane Piffetti, molto apprezzato dal marchese, approntò per lui diversi lavori, puntualmente spediti a Torino. Dagli stessi documenti si viene a conoscenza che su richiesta del Re, Carlo Emanuele III, lasciò Roma il 16 Gennaio del 1731 per stabilirsi a Torino (nota 5).
Alla corte il Piffetti consegna un tavolo parietale, oggi al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama di Torino (nota 6), il cui piano lo si può ben considerare chiara derivazione della coppia di tavoli firmati da Daneau ed una coppia di tavoli, uno conservato al Victoria and Albert Museum [Figura 8] e l’altro all’Istituto San Paolo di Torino [Figura 9], la cui sintassi compositiva dell’ornato presenta somiglianze assai rilevanti con i piani dei tavoli Barberini di Daneau.
Figura 8. e 9. Pietro Piffetti, coppia di tavoli, Londra, Victoria and Albert Museum (sinistra); Torino, Istituto Bancario San Paolo di Torino, oggi Banca Intesa San Paolo (destra) (Giancarlo Ferraris, Op. cit., pp. 50-51).
Dopo aver evidenziato la inconfondibile foggia romana dell’inginocchiatoio l’indagine ci porta ora, a conclusione della nostra trattazione, ad entrare più specificatamente in merito all’ornato.
Si è cercato dunque di avanzare un confronto con alcuni lavori, già attribuiti al Piffetti, licenziati durante i primi lustri del suo arrivo nella città sabauda, che presentano la stessa tecnica decorativa e consuetudine iconografica.
Si tratta del tavolo da muro con scansia, attualmente a Palazzo Reale di Torino [Figure 10 e 11], che non solo esibisce nell’esplosione dei fiori lo stesso impasto compositivo, ma tra le molteplici varietà, il Piffetti inserisce delle piccole campanule, rese in questo caso utilizzando l’avorio, che ritroviamo, pressoché uguali, nell’ornato del fianco del nostro inginocchiatoio (nota 7).
Figure 10 e 11. Pietro Piffetti, tavolo da muro con scansia, Torino, Palazzo Reale (Roberto Antonetto Op. cit. p. 149).
Sorprendente è la resa grafica del canestro di vimini sulla pedana del nostro mobile, che ci viene restituita identica non solo sulle ante del tavolo con scansia, di cui sopra, ma anche sui piani della coppia dei tavoli parietali dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino e del Victoria and Albert Museum di Londra.
A nostro avviso, l’inginocchiatoio potrebbe rappresentare la prima produzione del Piffetti, quella giovanile degli anni Trenta trascorsi a Roma o dei primissimi a Torino, quando già in possesso di una egregia perizia tecnica in fatto di intarsio, il suo modus operandi era ancora influenzato da idee, frequentazioni e disegni che nel prosieguo degli anni avrebbe abbandonato in virtù di quella produzione di eccellenza ben nota (nota 8).
Anche se poco o nulla sappiamo circa gli arredi realizzati a Roma, resta un’indicazione rilevante e condivisa: l’esperienza presso la bottega del Daneau, che lascia aperta l’ipotesi di una possibile collaborazione tra i due ebanisti a Roma.
L’inginocchiatoio potrebbe appartenere a quella produzione che dovette catturare l’attenzione del Marchese d’ Ormea, tanto da indurlo sia a commissionarne arredi per suo personale diletto, che a segnalarne le straordinarie capacità presso la corte sabauda.
Ancora all’inizio della sua carriera, il Piffetti sembra incarnare quella particolare osmosi tra varie culture, accordando mirabilmente la tecnica fiamminga, minuziosa e analitica, con l’attenzione naturalistica cara al Boulle e alla morbidezza esplosiva e prorompente del barocco romano.
La grande avventura artistica floreale, esplosa sull’onda dell’inaspettato interesse economico prima che estetico, verso il tulipano ed in seguito verso altre varietà, attraversa nell’arco di quasi due secoli le principali corti d’Europa, arricchendosi di nuove soluzioni e adattandosi nel contempo a criteri autoctoni già consolidati.
Il Piffetti lungo il suo iter, iniziato a Roma e concluso a Torino, ben potrebbe rappresentare con questo arredo il fenomeno; una sintesi che raccogliendo citazioni di artisti fiamminghi, francesi, italiani, ha contribuito a portare l’intarsio ad una definitiva dimensione cosmopolita e il nostro inginocchiatoio, seppur rappresenti l’incipit della sua produzione, ne potrebbe essere chiara testimonianza.
NOTE
[1] Comò inginocchiatoio in legno intagliato, dipinto, laccato e parzialmente dorato. 1725 circa. Roma, Palazzo Pallavicini. Cassettone con gradino impiallacciato ed intarsiato in legni vari. Collezione privata. Si veda Alvar Gonzalez Palacios, Arredi ed Ornamenti alla Corte di Roma, pp 169-188 Milano, 2004.
[2] Alvar Gonzales Palacios, op.cit., pp.169-188.
[3] Jan van Mekeren (Tiel 1658- Amsterdam 1733) fu uno dei più importanti costruttori di cabinets del tardo XVII secolo, specializzato in marchetteria floreale.
[4] Poche notizie ci sono pervenute circa questo ebanista. Nacque probabilmente intorno al 1710, e a sedici anni lasciò la Francia. Il tavolo, in coppia con un’altro di uguale struttura ma con ornati a tarsia leggermente diversi, è stato reso noto da Alvar Gonzalez Palacios in Fasto Romano dipinti, sculture, arredi dai Palazzi di Roma, Catalogo della mostra, Roma, Palazzo Sacchetti, 15 Maggio-30 Giugno, 1991, a cura di Alvar Gonzalez Palacios, Roma, 1991.
[5] La lettera risale all’8 Novembre del 1730, il Marchese d’Ormea informa l’ambasciatore piemontese a Roma, conte Gros, di aver parlato di Piffetti al re, il quale dispone “che debba venirsene qua ove S. M. non lo lascierà mancare nè d’occupazione, nè di ricompensa”. Roberto Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, volume primo Torino p.130.
[6] Giancarlo Ferraris, Pietro Piffetti e gli ebanisti a Torino dal 1670 al 1838, Torino 1992, p.110.
[7] L’arredo in realtà era nato per il Gabinetto del pregadio del re. È da identificare con il “coffano forte con tiretti e secreti di noce nera l’ossatura del quale di noce nostrale, con il tavolino e scansia sopra impellicciata di fiorami di legno con uccelli, cornici di madriperla” del pagamento del 5 Aprile 1734. In seguito modificato da Gabriele Capello. Roberto Antonetto Op. cit. p. 149.
[8] R. Antonetto, Minusieri ed Ebanisti del Piemonte, Torino 1985; R. Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, Torino 2010.
Bibliografia citata
-Roberto Antonetto, Minusieri ed Ebanisti del Piemonte, Torino 1985
-Roberto Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, Torino 2010
-Alvar Gonzalez Palacios, Fasto Romano, Roma 1991
-Alvar Gonzalez Palacios, Arredi e Ornamenti alla Corte di Roma, Milano, 2004
-Giancarlo Ferraris, Pietro Piffetti, Torino 1992
Prima pubblicazione: Antiqua.mi, febbraio 2017
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