Una porcellana tipicamente inglese: il parian ware
di Gianni Giancane
Premessa
Come sappiamo con il termine porcellana si intende di solito un materiale formato da caolino, quarzo e feldspati (minerali abbondanti nella crosta terrestre), opportunamente macinati e mescolati nelle giuste dosi (di norma 50%-25%-25%) e cotti ad altissime temperature (una prima sui 900°, una seconda sui 1400°).
A questo tipo di porcellana (che possiamo identificare con la comune porcellana delle odierne stoviglierie) si attribuisce generalmente la dicitura “a pasta dura”, per differenziarla da quella tipicamente settecentesca “a pasta tenera”, senza caolino, dal corpo granuloso e più poroso, che nel tempo le diverse manifatture europee hanno utilizzato con alcune varianti a seconda degli oggetti che intendevano produrre.
Parliamo ad esempio della porcellana fritta, alla steatite, bone china. Quest’ultima, in verità, pur avvicinata da alcuni autori più a quella dura che non a quella tenera, è composta addizionando alla miscela cenere d’ossa di animali e compare in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo.
Aspetti composito-costruttivi
Nel quarto decennio dell’Ottocento, sempre in Inghilterra nel quadro di differenti interventi tecnologici innovativi, comparve un nuovo tipo di porcellana la Parian Ware (porcellana Parian), così chiamata per l’aspetto composito-costruttivo (tipo marmo statuario) e la resa cromatica (dal bianco al bianco latte, all’avorio) che manifestavano le opere con essa realizzate.
Il nome in particolare deriva dall’isola greca di Paros nota sin dall’antichità per i suoi pregiatissimi marmi utilizzati per la statuaria già in epoca greca e romana.
Tale porcellana è un particolare tipo di bone china molto più ricca di feldspati che conferiscono alle opere un aspetto già “finito” non necessitando pertanto di successiva invetriatura e quindi ricottura (una sorta di variante del biscuit).
La superficie risulta morbida nell’aspetto plastico, ma dura nella consistenza, calda alla vista, variando dall’opaco al semi opaco, al leggermente lucido.
Differentemente ai manufatti in biscuit (anch’essi non presentano vernice di rivestimento) il parian è meno poroso, più liscio, meno aspro ed offre una piacevole sensazione di caldo realismo con aspetto globale simile al marmo.
La tecnica esecutiva sfrutta il colaggio ad impasto umido e la modellatura a stampo che consentono di fatto un’alta precisione ed elevata resa dei dettagli tecnico-stilistici in fase di realizzazione.
Un po’ di storia
La prima manifattura a presentare questa porcellana fu la Copeland & Garret a Stoke-on-Trent nello Staffordshire per mano, si ritiene, di John Mountfort, per quanto ben presto Minton & Co (sempre a Stoke-on Trent, che rivendica anch’essa la paternità dei primi manufatti in parian), Worcester, Wegwood, Belleek (in Irlanda) iniziarono la realizzazione di numerose opere con tale materiale.
La grande esposizione di Londra del 1851 fu certamente la migliore vetrina per presentare al Regno Unito e al mondo intero una svariata tipologia di manufatti in porcellana parian.
In perfetto tema (ed ambiente) vittoriano le figure parian furono incentrate soprattutto su busti di personaggi celebri (monarchi, inventori, poeti, politici ed altri), piccole statue (singole o in gruppi compositi) a soggetto prevalentemente mitologico e/o allegorico e dalla notevole resa plastica, ma ci fu anche una non trascurabile produzione di oggetti d’uso comune quali stoviglie e vasellame. Artisti e scultori del XIX secolo contribuirono al successo del parian fornendo numerosi modelli di loro creazione (ricordiamo tra gli altri John Bell, Raffaele Monti, Thomas Brock); ma anche opere classiche già presenti nei migliori musei di tutto il mondo vennero riprodotte in scala per essere offerte alla borghesia ottocentesca, bacino di utenza sempre più vasto.
Il successo perdurò per tutto l’Ottocento fin quando la produzione fu approntata con elevato spirito artistico; sul finire del secolo prevalse invece un atteggiamento “industriale” di tipo seriale che inevitabilmente vide un maggior numero di manifatture coinvolte, ma che fece scadere la qualità realizzativa. Tale successo si spinse anche oltre oceano, negli Stati Uniti, dove si ebbe per tutto il secondo Ottocento, una discreta produzione di parian ware ad opera soprattutto della Bennington nel Vermont e della Bennet a Baltimora.
Una bella statuina parian
La donna con serpente sul braccio (Cleopatra) [Figura 1] appartiene alla produzione delle rappresentazioni storico-mitologiche in parian ware. Databile intorno alla metà del XIX secolo è stata prodotta molto presumibilmente dalla manifattura di Copeland, basando tale affermazione, in mancanza di marchi apposti sull’opera (generalmente Copeland incuteva il suo nome per esteso nella pasta), sulle analogie di opere sicuramente certificate di tale opificio [Figura 2].
Figura 1. Cleopatra, parian ware, altezza cm. 23, base cm. 11,5, Copeland, metà XIX secolo, Lecce, collezione privata.
Figura 2. Sabrina, parian ware, Marshall per Copeland (immagine tratta da “AntiqForum”).
Oltre all’aspetto generale, tutti i dettagli tecnici, quali ad esempio il modellato accurato del viso, dei piedi, delle mani [Figure 3, 4 e 5], il panneggio, la postura e la resa stilistica coincidono perfettamente.
Figure 3 e 4. Dettagli di Figura 1.
Figura 5. Altro dettaglio di Figura 1 (interno della base cava con foro di aerazione).
Inoltre, colore, pasta e sua granulometria appartengono, a mio parere, più alla produzione di Copeland che di Minton o altri, per quanto, ad onor del vero, le differenze tra le due manifatture siano comunque modeste.
Non è frequente in ambito italiano reperire tale tipologia di manufatti, maggiormente presenti sul mercato d’Oltremanica, dove raggiungono quotazioni molto interessanti soprattutto se attribuibili con sicurezza ad uno specifico autore o ad una determinata manifattura e comunque quasi sempre proporzionali, a parità di altri parametri valutativi, alle dimensioni dell’opera.
La statuina, proveniente da una collezione privata, è in perfetto stato di conservazione, presenta una bella patina ed è valutabile, in assenza di uno specifico marchio di identificazione, intorno ai settecentocinquanta euro circa.
Prima pubblicazione: Antiqua.mi, dicembre 2012
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